L’allenatore del Parma dei miracoli: “Giocavamo un bel calcio, eravamo giovani, avevamo talento, anche in provincia il mio nome fece il giro d’Europa. Io e Bagnoli inventammo il 3-5-2, era la terza via per giocare. E ancora oggi”
Il senso della vita sta, quasi sempre, nelle risposte che si danno. Ci sono dei “sì” o dei “no” che indirizzano l’esistenza, in meglio o in peggio. Qui si parla di un “no”: quello che Nevio Scala, all’epoca allenatore del Parma alla sua prima stagione di Serie A, nell’inverno del 1991 pronunciò di fronte ai dirigenti del Real Madrid. “Non me la sento. Prima vinco col Parma, poi ci penso”. “Ma come si può rifiutare la panchina dei Blancos?” si domandarono esterrefatti coloro che lessero la notizia sulla prima pagina della Gazzetta dello Sport di mercoledì 6 febbraio 1991. “Soltanto un sognatore, o addirittura un matto, prenderebbe una decisione simile” concluse la maggior parte del pubblico.
Allora, Scala, ricorda quei giorni?
“E come posso dimenticarli? Però non ero per nulla agitato, come qualcuno può pensare. In cuor mio sapevo bene quello che stavo facendo, e ne ero pienamente convinto”.
“Allenavo il Parma, che era al primo campionato di A. Squadra giovane, ragazzi di talento, un progetto che condividevo con la proprietà, quindi con il cavalier Calisto Tanzi, e con i miei collaboratori, Ivan Carminati e Vincenzo Di Palma. Alla fine dell’andata eravamo secondi in classifica, dietro l’Inter capolista e al pari della Juve. Nell’ultima giornata del girone avevamo battuto 2-0 al Tardini il grande Milan di Sacchi: doppietta di Melli. Sui giornali il Parma si era guadagnato un notevole spazio, considerando che eravamo appena arrivati sul grande palcoscenico. Giocavamo un bel calcio, eravamo una provinciale, facevamo simpatia”.

Si diceva, in quel periodo, che Parma fosse un’isola felice. E se ne accorsero anche all’estero, perché un dirigente del Real Madrid la contattò.
“Esatto. Mi telefonarono a casa, non c’erano ancora i cellulari. Non ricordo il nome del dirigente, mi disse che parlava a nome del presidente Ramon Mendoza, che mi voleva a tutti i costi. Mi espose il progetto e chiese la mia disponibilità. Io presi tempo, gli risposi che ci saremmo sentiti di lì a qualche giorno. Però, nel frattempo, a Madrid la notizia cominciò a circolare e un giornalista della Gazzetta, Alberto Cerruti, che era un mio caro amico e aveva buoni contatti in Spagna, venne a conoscenza della proposta che mi aveva fatto il Real. Mi chiamò a casa, mi chiese se era tutto vero, glielo confermai, e così la Gazzetta poté pubblicare quello scoop”.
Perché disse no al Real?
“Perché ero un sognatore, e lo sono ancora. Avevo in mente di vincere qualcosa d’importante con il Parma, che consideravo una mia creatura. Non me la sentivo di lasciare i miei ragazzi. Eravamo una famiglia e un buon padre di famiglia non se va dall’oggi al domani. Alla lunga ho avuto ragione: quell’anno ci qualificammo per la Coppa Uefa con il sesto posto, poi vincemmo la Coppa Italia contro la Juve nel 1992, la Coppa delle Coppe a Wembley nel 1993, la Supercoppa europea contro il Milan di Capello nel 1994, la Coppa Uefa nel 1995. Insomma, anche restando a Parma il mio nome fece il giro d’Europa”.

È vero che scrisse una lettera di scuse al Real Madrid?
“Sì, lo stesso giorno che lessi la notizia sulla Gazzetta mi misi alla scrivania e buttai giù qualche frase per spiegare le ragioni per cui non accettavo di andare a Madrid”.
Mai pentito di quella scelta?
“Nemmeno per un istante. Anche se quello era il Real di Butragueño, di Hierro, di Sanchis. E non mi pentii nemmeno nel 1999 quando il Real Madrid mi contattò di nuovo. Era dopo l’esperienza in Germania al Borussia Dortmund con cui vincemmo la Coppa Intercontinentale. Anche in quella circostanza non mi convinse il progetto degli spagnoli. Io sono un contadino, un uomo pratico: ho bisogno di certezze e di stare in un ambiente familiare. Probabilmente al Bernabeu mi sarei sentito perso”.
Nel campionato di oggi il modulo più utilizzato è il 3-5-2. Si ricorda chi fu l’inventore di quello schema?
“Io e il grande Osvaldo Bagnoli con il Genoa. Era la terza via del calcio: non si giocava a zona con i quattro in linea, non si giocava a uomo, ma si percorreva una strada nuova. Se quel modulo dura ancora oggi, vuol dire che era efficace, che ne dite?”.
Che cosa ricorda dei suoi sette anni a Parma?
“L’amore della città per una squadra che, con pazienza certosina, avevo costruito. C’era Minotti, il capitano, c’era Apolloni, c’era Zoratto, c’era Melli che aveva la testa calda, ma era una pasta di ragazzo e aveva un grandissimo talento. Se solo mi avesse ascoltato un po’ di più, avrebbe fatto una carriera incredibile. Aveva tutto: tecnica, fisico, era bravo in acrobazia, vedeva la porta. Però viveva secondo l’istinto, e non secondo la ragione: quello è stato il suo limite”.
Melli ha dichiarato che lei, da presidente del Parma, nel 2015, non mantenne una promessa che gli aveva fatto.
“Vero. Ci siamo chiariti e adesso abbiamo un rapporto splendido. Loro resteranno sempre i miei ragazzi e io, per loro, mi butterei ancora nel fuoco, così come loro farebbero per il sottoscritto”.
Se chiude gli occhi, rivede nel calcio di oggi una squadra simile al suo Parma?
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“L’Atalanta di Gasperini mi ha entusiasmato. Squadra di provincia che ha saputo stupire in Italia e in Europa. Come abbiamo fatto noi. Però il mondo è cambiato, e anche il calcio. Se me lo chiede, le rispondo che mi piaceva di più il calcio di ieri, ma sono di parte. La verità è che bisogna saper vivere i cambiamenti e non avere rimpianti. Io non ne ho”.
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