L’ex bomber nerazzurro: “Non è retorica, ci metteva l’affetto di un genitore: ci coccolava e sapeva essere duro. Nel suo business, le mense, teneva al concetto che lì il capo siede insieme all’ultimo. E da ct degli Stati Uniti mi è tornato utile”
Un messaggio di capitan Bergomi nella chat “Inter Trap”, quella che riunisce i nerazzurri di quell’epoca felice, e Jurgen Klinsmann ha saputo che il suo presidente non c’è più. Il centravanti tedesco, acquistato da Ernesto Pellegrini nel 1989 e rimasto a Milano fino al 1992, si è svegliato con la triste notizia qui a Monaco, dove è ospite della Uefa per assistere alla finale. Come tutti ha pensato a un disegno dall’alto: “Incredibile, si è spento proprio oggi… Chi lo ha conosciuto, e ora prova un grande dolore come me, sa quanto il presidente Pellegrini avrebbe voluto vedere la partita di stasera: speriamo che i nostri ragazzi possano dedicargli questa Champions”.
Klinsmann, ricorda la prima volta che ha visto Pellegrini?
“Ero stato invitato direttamente a casa sua prima di firmare il passaggio dallo Stoccarda. In questa bellissima villa c’era anche il dg dell’epoca, Paolo Giuliano, e davanti a me davvero un uomo di altri tempi: corretto, gentile, premuroso, ma estremamente diretto. Diceva le cose come stavano, senza girarci attorno. La sua squadra aveva vinto lo scudetto, andava via Ramon Diaz, voleva vincere anche in Europa e io dovevo aiutare a farcela: ci riuscimmo con la Uefa nella mia seconda stagione. Da parte sua, invece metteva, l’affetto di un padre e non è retorica…”.
Cosa significa essere padre per un presidente di una squadra di pallone?
“Un presidente-padre è esattamente come lui, dà tutto per i figli, che eravamo noi giocatori. Li coccola e li abbraccia, ma sa anche essere esigente, o perfino duro, in alcuni frangenti, ma sempre col suo stile. Ci invitava a cena ogni due mesi circa per fare il punto della situazione, ed erano momenti educativi. L’usanza è continuata negli anni, l’ultima nostra cena di squadra è stata per festeggiare la carica di presidente a Beppe Marotta. C’eravamo in molti, da Bergomi a Beppe Baresi e Serena, purtroppo non c’era più Andy…”
Il rapporto tra Pellegrini e Brehme era davvero speciale?
“Sta sempre tutto nel concetto di padre. Si interessava della vita delle persone, anche quando smettevano di essere suoi dipendenti. Quando veniva a conoscenza che un suo ex giocatore era in difficoltà, lo sosteneva da tutti i punti di vista. Anche io ho sempre saputo che, se mai nella vita avessi avuto qualche tipo di problema – e può succedere a tutti, nessuno escluso –, ci sarebbe stato sempre un numero da chiamare, quello di Ernesto Pellegrini. Per fortuna, non ho avuto bisogno di farlo, ma non avrebbe mai lasciato solo né me né altri”.
C’è un episodio che vi lega e che ricorda in particolare?
“Era arrivato da pochissimo, ricordo la prima volta in cui entrò negli spogliatoi e i miei compagni scattarono tutti in piedi come soldati. In Germania non avevo avuto questa formazione, io rimasi seduto. Poi vidi che anche Brehme e Matthäus si erano alzati e, senza capire bene il perché, feci lo stesso. Me lo spiegò dopo proprio Bergomi: era semplicemente rispetto per l’azienda che ci pagava e l’uomo che la rappresentava. Un piccolo gesto di cortesia, normale ma doveroso. Ho sempre pensato che la mentalità di Pellegrini venisse in qualche modo anche dal suo lavoro”.
“Il suo business erano le mense, cioè luoghi in cui si annullano le differenze. E, sempre con rispetto, stanno insieme il capo e l’ultimo dei lavoratori. Lui teneva molto a questo concetto e l’ho fatto mio. Quando allenavo gli Stati Uniti, preparavamo il Mondiale nell’università di Stanford. Volevo che mangiassimo nella caffetteria in mezzo a tutti gli studenti. Un mio giocatore mi chiese: ‘Perché, mister, non ce ne stiamo per i fatti nostri?’. E lì gli raccontai la storia di un mio vecchio presidente italiano… Stando al tavolo con altri lontani da te, impari sempre qualcosa”.
Come è andata, invece, quando ha scelto di andare via dall’Inter?
“Il terzo anno era stato maledetto: Aldo era andato al Milan, Lothar spesso infortunato, avevo capito che il mio ciclo era finito. Andai da Pellegrini e gli dissi: ‘Preferisco lasciare adesso, ma vado solo all’estero…’. Lui capì subito, con il suo elicottero mi portò a Montecarlo per firmare col Tottenham. Ma la frequentazione è stata così assidua negli anni che mi sembra sia sempre rimasto il mio presidente. Anzi, il nostro: lo stesso più sentimento, lo stesso legame nel tempo, è comune a tutti: Zenga, Ferri, lo Zio, Berti, nessuno escluso”.
Stasera la squadra avrà il lutto al braccio per lui.
Sogno Champions: segui l’Inter verso la finale con G+, abbonati a soli 14,99€/anno per sempre!
“La partita è dura, il Psg fortissimo, ma l’Inter è preparata. E ha anche un tifoso in più che la guarda da lassù”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA