Con l’addio di Inzaghi il campionato perde una presenza elegante a bordo campo, dall’outfit impeccabile. In 4 anni, mai una parola scolpita nel marmo, ma la seconda stella non gliela spegnerà nessuno.
Gli arbitri si sono passati la notizia con un gioioso giro di telefonate: “Papillon va in Arabia!”. Simone Inzaghi, il più temuto evasore dalle aree tecniche, lascia la Serie A. Non dovranno più rincorrerlo lungo le linee laterali. Fare il quarto uomo diventerà più semplice. Gli Autogol perdono un punto di riferimento importante: spiaze. Dopo nove stagioni, il campionato perde una presenza elegante a bordo campo, che ha imposto uno stile, dall’outfit impeccabile, agli antipodi delle tute sarriane. Cravatte perfette, da testimone dello sposo. Scriminatura dei capelli rigorosa, come le sue linee di gioco. Simone è stato uomo d’ordine, tecnico illuminista, devoto alla scienza. Scientifica la sostituzione degli ammoniti, turnover con il bilancino del farmacista. Ha educato una bellezza geometrica, non poetica. Negli anni, le sue linee di gioco sono diventate solchi che portavano la palla oltre gli avversari, senza bisogno di dribblarli.
La sua Inter ha vinto (troppo poco) e divertito (molto) riproducendo giocate codificate, come Andy Warhol riproduceva i barattoli Campbell’s. Bellezza da Pop art, più che pennellate d’artista. L’unica concessione alla fantasia individuale, in fondo, è stata Correa. Poteva trovare di meglio. La disfatta di Monaco è sembrata una punizione dantesca per contrappasso: travolto da una squadra meravigliosamente disordinata che mescola funzioni e infierisce con un giovane poeta (Doué). In 4 anni, mai una parola scolpita nel marmo, come accadeva a Mou ogni volta che apriva la bocca. Monaco di Tibet? No, Monaco di Corea. Ma la seconda stella non gliela spegnerà nessuno.