Lo chiamavano “Dustin”, faceva gol per il Milan: “Fu Albertosi a chiamarmi così, mi diceva che ero tale e quale a Hoffman. Quando mi prese il Monza mia mamma era disperata: ‘Ma cosa vai a fare il calciatore?'”
Il taglio degli occhi, con le rughe d’espressione che cercano una via di fuga, sottraendosi alla penombra delle palpebre. I tratti sottili, la magrezza da peso leggero. Il sorriso a lametta, quello di un timido che cerca approvazione. La bassa statura, probabilmente. Dustin Hoffman, lui. Dustin Antonelli, lui, nato Roberto, lumbard della Valtellina, classe 1953, figurina di quel calcio italiano che — nel passaggio tra gli anni 70 e gli 80 — dava diritto di cittadinanza anche ai fuori catalogo come il nostro, uno che sembrava giocare sempre in punta di piedi e da un momento all’altro sfoderava quello che nella danza si chiama “battement tendu jeté”: arto libero (anche arte libera) alla sbarra e piede che va avanti, di lato, indietro, tre movimenti per una traiettoria secca e precisa, quanta eleganza ma quanta.