Uno dei due gemelli racconta la carriera in simbiosi con Emanuele: “Ma abbiamo anche giocato contro e ci siamo menati. Guardiola ci prendeva come un esempio. Oggi saremmo in nazionale…”
I gemelli Filippini hanno svicolato dal concetto di “insieme” in tre occasioni. Un paio in Serie A, quando Emanuele virò verso Parma e Livorno lasciando il fratello a correre da solo, un’altra da adolescenti. “A 14 anni lavoravamo entrambi: io come corniciaio, lui come elettrauto. È stata l’unica volta dove abbiamo svolto lavori diversi. Chi ci pensava al calcio, ai contratti, ai macchinoni. Per noi era quella la vita vera”. Parola di Antonio, vecchio esterno destro diventato allenatore. Negli ultimi anni ha guidato Trento, Livorno, Pro Sesto e Genoa femminile. “Anche mio fratello ha scelto questa come seconda vita”. Parlare con uno dei due è come parlare con entrambi. Quando chiedi ad Antonio della sua carriera, del Brescia, della Lazio, di Bruce Springsteen e di quei pomeriggi passati a suonare la chitarra, tira fuori il “noi”. “Mi viene naturale. A scuola ci scambiammo di classe”.
E quella volta in cui Lucescu vi chiese ‘la furbata’?
“Perugia-Brescia, fine primo tempo. Emanuele era ammonito, Mircea ci chiese di scambiarci le maglie e provare a ingannare l’arbitro. Gli dicemmo di no. Anche perché avevamo saputo di una storia simile nello sci, dove due gemelli furono squalificati per questo. Non c’erano i social, ma molta poesia”.
Come quando Fascetti vi diede dei “nani di…”.
“Fu durante Brescia-Bari, solita partita dove correvamo come matti. Nostra madre gli rispose per le rime e ne nacque un battibecco simpatico. A fine partita chiarimmo. Da quel giorno, quando lo sfidavamo in Serie A, ci chiedeva sempre di salutarci la ‘mitica Terry’. Il nostro faro”.
Il sergente di ferro della famiglia.
“Papà lavorava, lei badava a noi e a nostro fratello maggiore. Non potevi sgarrare: orari, allenamenti, esercizi, un continuo. A volte provavamo a rubacchiare una ripetizione, ma niente: lei afferrava il foglio e ci diceva che ne mancava una. Ci manca ogni giorno, sempre di più”.
Nel 2020 l’immagine di lei a bordocampo, commosso, colpì tutti.
“Allenavo il Livorno in C, mi sarebbe piaciuto vederla lì a godersi il momento, invece se n’era andata da poco durante la pandemia, da sola, senza nessuno di noi. Così piansi a dirotto pensando a lei. Non l’abbiamo salutata di persona, solo in videochiamata. Ha vissuto una vita piena d’amore ed è morta in solitudine in un letto d’ospedale. In quel pianto c’era tutta la nostra famiglia”.
Quand’è che avete pensato “oggi abbiamo realizzato un sogno?”.
“Il giorno del debutto col Brescia in B. Eravamo due ragazzi della Voluntas, i migliori passavano da lì e poi finivano al Rigamonti. L’orgoglio di aver indossato quella maglia è pari alla rabbia per come è finita quest’anno. Rabbia, delusione, incredulità. Ma il Brescia tornerà a brillare”.
Lo sfizio che si è tolto col primo stipendio?
“Una chitarra elettrica. Abbiamo anche un nostro gruppo, si chiama ‘The Stalkers’. Io canto e suono. Il nostro mito è Bruce Springsteen, l’abbiamo visto anche a Milano qualche settimana fa. Ci ha ispirato a dare il massimo”.
Facile intuire quale sia la canzone della vita.
“Born to run. Mio fratello se l’è tatuata sul braccio. Pressavamo a tutto campo come dei forsennati, ma ci dicevamo che correvamo e basta…”.
Siete stati sottovalutati?
«Un po’ sì, oggi giocheremmo in Nazionale. Il mio rimpianto è non aver giocato neanche un minuto in maglia azzurra. Ma ci hanno sempre stimato in tutta Italia. Guardiola ci prendeva come esempio. Una volta lo andammo a trovare a Barcellona e lui parlò così davanti a tutta la squadra: ‘Loro due giocavano a calcio in modo diverso dagli altri’. Oggi rivedo le nostre qualità in Barella”.
Ronaldo disse: “I gemelli Filippini erano il mio incubo”.
“Ed è vero. Quando lo disse pensammo ‘Cavolo, allora qualcosa abbiamo lasciato’. Quel Brescia oggi sarebbe in Champions. Giocare con Baggio è stato un onore, lo guardavamo come un alieno. Ricordo ancora quando Mazzone disegnò una X sulla lavagna tattica. ‘Spero di scrivere ‘quel nome’. Se viene qui lo lui fa come gli pare’. È stato un privilegio correre per lui”.
Un compagno che avrebbe potuto fare di più?
“Del Nero, tormentato dagli infortuni. Un bel mancino. Una volta Mazzone lo fermò nella hall dell’albergo in ritiro. Simone era vestito bene, alla moda, così il mister lo squadrò e poi disse così, davanti a tutti. ‘A’ Del Nero, ma lo sai che sei proprio un bel giocatore?’. Attimo di silenzio: ‘Non in campo eh, fuori’. E tutti a ridere”.
La Lazio come nacque, invece.
“Eravamo fuori rosa a Palermo, il nostro agente chiamò Lotito e sondò l’affare in modo informale. Arrivammo l’ultimo giorno di mercato tra i famosi 9 acquisti per rinforzare la squadra. I tifosi della Roma ci presero in giro per il cognome: ‘Avete preso due Filippini…’. Ci siamo rifatti al derby del 6 gennaio, 3-1 con gol Di Canio sotto la sud e gran partita di mio fratello come terzino sinistro”.
“Rigiocherei volentieri è la finale di ritorno dell’Intertoto del 2001, a Brescia. Pareggiamo 1-1 in casa col Psg e perdemmo la chance di partecipare alla Coppa Uefa. Sarebbe stato magico, ma in fondo sono soddisfatto: ho condiviso il campo con grandi campioni, mi sono divertito in varie piazze, ho giocato e allenato a Livorno. Potevamo andare anche alla Roma di Zeman”.
E ha giocato pure contro Emanuele.
«Ci ‘menammo’ eccome. Quel Parma-Brescia 4-3 del 2002 fu una battaglia. Contrasti duri, scivolate. Ci siamo sfidati anche in panchina, in Rezzano-Trento in Serie D. Spero di poterlo rifare”.
Il sogno da realizzare?
“Diventare il Ferguson di Brescia”.
Insomma, chi è stato il gemello più forte?
Il Fantacampionato Gazzetta è tornato, con il montepremi più ricco d’Italia! Iscriviti e partecipa
“Io ho fatto più presenze in Serie A, più gol, più assist. Lui ha segnato tutte le competizioni, ma non c’è bisogno di aggiungere altro. Anzi, diciamoci la verità: Emanuele è stato la mia palla al piede!”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA