Tragedia Heysel, il ricordo nel libro di Targia

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Il giornalista e scrittore Targia era allo stadio e ha registrato con una cinepresa Super 8 le immagini della tragedia: “Raccontare è terapeutico, ma non ho dormito per notti intere”

Alessandra Bocci

Giornalista

La fine è nota: 39 persone sotto terra. Emilio Targia, scrittore e giornalista, era all’Heysel in quello sciagurato 29 maggio 1985. Aveva 19 anni, era provvisto di registratore e di cinepresa Super 8. Le aveva portate con sé pensando di filmare la festa. La sua esperienza è diventata un libro, “Quella notte all’Heysel”, che in questi giorni è tornato in libreria.

Come cominciò la giornata? 

“Avevo i biglietti per la curva Z, poi mi regalarono quelli della curva Mno, che era dalla parte opposta. Di Bruxelles ricordo il centro ridotto a un tappeto di bottiglie e barattoli e gli hooligan ubriachi già dalla mattina. Quando dentro lo stadio si capì che stava succedendo qualcosa istintivamente spinsi il pulsante rec: quel materiale oltre al libro è diventato podcast e spettacolo teatrale. In quarant’anni ho letto troppe assurdità. La gente deve sapere quello che è successo davvero. Nel podcast ci sono i rumori, le voci. E il libro non è a tema, non accusa e difende: racconta”.

Ha mai avuto incubi ripensando a quella giornata infinita? 

“Per alcuni giorni non ho dormito e resta la ferita sull’anima. Tornai allo stadio subito, in settembre, all’inizio della stagione successiva. Per fortuna all’epoca ero giovane. E per fortuna posso raccontare, in un certo senso è terapeutico”.

Percepì subito la gravità dei fatti?

“Era difficile. Eravamo chiusi dentro, non potevamo andare da nessuna parte. Ovviamente all’epoca non avevamo i cellulari. Ricordo un signore che era accanto a noi e sentiva la radio con l’auricolare. I bollettini in francese cominciarono a parlare di vittime: prima 6, poi 21… Alla fine, sappiamo quante furono…”.

Che cosa le resta di quell’esperienza, una tragedia più che un dramma?

“Guardi, noi di solito in questo lavoro abbiamo preferito usare la parola strage. Perché è stata una strage, con delle vittime e dei colpevoli, e le vittime non possono diventare colpevoli, anche se ormai a volte capita, penso a certi casi di stupro. I colpevoli nell’ordine sono gli hooligan, la Uefa e le autorità del Belgio. Gli hooligan, annebbiati dall’alcol, che si sono scagliati contro chiunque, inseguendo anche donne e bambini con colli di bottiglia. La Uefa, che aveva scelto uno stadio inadeguato, errore riconosciuto, e in questo senso, nel senso della responsabilità, quella strage ha segnato un’epoca. Ma io ricordo anche scene grottesche dei gendarmi belgi che rincorrevano sul prato e manganellavano chi cercava di scappare da quell’inferno. Non c’era niente in quello stadio, non c’erano le barelle, non c’erano neppure i cerotti. Una disorganizzazione fatale, il Belgio quel giorno era piombato nel Medioevo. E non si dimise nessuno. Il borgomastro di Bruxelles non chiese neppure scusa. Il ministro degli Interni rimase al suo posto. Assurdo”.

Spesso per quella coppa conquistata si parla di vergogna per la Juve che giocò e festeggiò… 

“Quando lo sento dire al bar ancora dopo quarant’anni rischio la rissa. La Juve fu obbligata a giocare, il festeggiamento era finto. E quando sento dire che avrebbero dovuto ridare la coppa mi chiedo, ma a chi? Alla Uefa che aveva scelto uno stadio fatiscente? Al Liverpool? Non ha senso. Invece di parlare di coppa da restituire bisognerebbe continuare a ricordare quei 39 cittadini europei che non ci sono più. Parlo di cittadini europei perché le vittime non erano soltanto tifosi della Juve o soltanto italiani. C’è bisogno di ricordarli sempre. Il giorno dopo Platini era all’ospedale a visitare i feriti: i giocatori del Liverpool no. E per fortuna gli italiani del settore dove mi trovavo non riuscirono a passare dall’altra parte per aiutare chi veniva attaccato. Il risultato sarebbe stato ancora peggiore. No, aver giocato è stata la scelta giusta”. 

Come finì il viaggio a Bruxelles? 

“Dopo la nottata io e un amico abbiamo chiesto di entrare allo stadio per renderci conto pienamente di quello che era successo: hanno fatto problemi, alla fine un gendarme ci ha fatto entrare. Sul prato ho visto scarpe, panini, magliette: cercavo di non calpestarli perché mi sembrava di calpestare le persone. Questo mi è rimasto impresso. E questo c’è nel mio libro, nel podcast, nel testo che portiamo in scena nei teatri”. 

“Quella notte all’Heysel” è tornato in libreria con una edizione aggiornata, prefazione di Sandro Veronesi, postfazione di Antonio Cabrini. Il podcast “Dentro l’Heysel” (realizzato da Mondadori Studios, musiche di Gianluca Casadei) è disponibile sulle piattaforme principali. Leggere o ascoltare aiuta a non dimenticare.



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