Veron: “Lo scudetto della mia Lazio? Ascoltavo alla radio Perugia-Juve e poi piansi”

allgossip9@gmail.com
6 Min Read

A 25 anni dal tricolore della Lazio, il trequartista racconta quei momenti: “Eriksson non ci parlava di schemi ma di quello che voleva da noi sul piano umano. E tutti togliemmo qualcosa dal nostro ego per fare grandela squadra”

Andrea Schianchi

Giornalista

Il ricordo si manifesta spesso in un’immagine, un oggetto che torna alla mente e allora si riavvolge il tempo, si eliminano gli ultimi venticinque anni di vita e si piomba a quel giorno, all’istante perfetto. Domenica 14 maggio 2000, la Lazio vince lo scudetto, il secondo della sua storia, e lo fa in modo piuttosto rocambolesco. Juan Sebastian Veron è incollato con l’orecchio alla radiolina per seguire gli ultimi minuti di Perugia-Juventus. Assieme a lui c’è Nestor Sensini. Sono negli spogliatoi dello stadio Olimpico, la loro partita contro la Reggina l’hanno appena vinta, hanno fatto il loro dovere e ora non resta che attendere il fischio finale dell’arbitro Collina a Perugia, perché gli umbri stanno battendo la Juve. Veron, venticinque anni fa e pare ieri. 

Che cosa le viene in mente? 

“La radiolina di Sensini, naturalmente. Non c’erano mica gli smartphone, a quel tempo. Si poteva vedere la partita su qualche schermo nella pancia dell’Olimpico, ma io non ce la facevo. Soffrivo troppo. E allora mi sono affidato a quell’oggetto che gracchiava un po’, la voce non era sempre nitida, pulita… Il mio amico Nestor mi ripeteva di stare tranquillo, ma non ci riuscivo, ero agitatissimo”. 

E poi, al fischio finale di Collina, che cosa ha fatto? 

“Un salto con le braccia alzate verso il cielo, che era poi il soffitto dello spogliatoio. E mi sono messo a piangere. Sì, a piangere come un bambino. Avevo raggiunto il mio sogno e quello era il mio modo di festeggiare, mentre la gente impazziva di gioia, dentro e fuori dall’Olimpico”. 

Scudetto figlio della sofferenza, è d’accordo? 

“Considerando il finale, direi di sì. Ma lo definirei anche lo scudetto della qualità. Eravamo la squadra più forte del campionato, e questo voglio gridarlo forte anche a venticinque anni di distanza. Nessuno era forte quanto la mia Lazio”. 

La Juve crollò nell’ultimo tratto e voi riusciste a compiere l’impresa. 

“Io ero arrivato l’estate del 1999, dopo aver vinto con il Parma la Coppa Uefa e la Coppa Italia. Volevo lo scudetto e sapevo che alla Lazio avrei potuto conquistarlo. Nel 1999 a vincerlo fu il Milan, ma la Lazio di Eriksson era superiore. Diciamo che nel 2000 la gente fu ripagata anche per la delusione dell’anno precedente”. 

Sven-Goran Eriksson during a tribute before the Italian Serie A soccer match between Lazio and Sassuolo at the Olimpico stadium in Rome, Italy,, Rome 25 May 2024. ANSA/FABIO FRUSTACI

Che squadra era la sua Lazio? 

“Una squadra fantastica, dotata di grandissime qualità tecniche e, soprattutto, umane. E poi a guidarla c’era un allenatore speciale, Sven Goran Eriksson, uno che a me ha insegnato tantissimo. Mi ha spiegato come dovevo fare il calciatore e, contemporaneamente, mi ha fatto crescere come uomo. Gli devo tantissimo”. 

Quale fu il segreto di quel successo? 

“Molto semplice. Eravamo una squadra con tantissimi talenti. Penso a Mancini, a Boksic, a Nedved, a Mihajlovic, a Nesta, e di sicuro me ne sto dimenticando qualcuno… Bene, sapete che cosa ha fatto Eriksson? Non si è messo a disegnare schemi sulla lavagna, sapeva che sarebbe stato inutile, ma ci ha fatto sedere sulle panche dello spogliatoio e ci ha detto che cosa pretendeva da noi sul piano umano”. 

Che cosa, in particolare? 

“Desiderava che ognuno di noi togliesse qualcosa al proprio ego e lo mettesse a disposizione del gruppo. Tutti fummo convinti da quel discorso, e i risultati sono lì a testimoniarlo. Quella Lazio era, prima di tutto, un grande gruppo. Si lavorava duramente in allenamento, ci si impegnava per la causa e si lottava dimostrando un’unità d’intenti che non è sempre facile trovare in un club”. 

“Ogni giocatore fu importante per quel successo. All’inizio ricordo che Simeone e Almeyda non erano molto impiegati, però non si demoralizzarono, non fecero polemiche, e sapete che in certe situazioni è molto semplice far scoppiare un casino. Loro zitti continuarono a lavorare e furono determinanti. Merito di Eriksson che seppe sempre coinvolgerli”. 

Lei, in quel campionato, fu il giocatore più impiegato. Eriksson la considerava insostituibile. 

“Nessuno è insostituibile, tranne il grande Maradona. In quella Lazio mi trovavo a mio agio, c’erano giocatori con i piedi buoni, si faceva un bel calcio. Lo ripeto: eravamo i più forti e lo abbiamo dimostrato”. 

E quattro giorni dopo andaste a San Siro, per il ritorno della finale di Coppa Italia, e vinceste anche quel trofeo. 

“All’andata avevamo battuto l’Inter 2-1. Bastò uno 0-0 per conquistare la coppa. Però quell’impegno non ci fece festeggiare lo scudetto come avremmo voluto e dovuto. Pazienza. Mi resta un meraviglioso ricordo che nessuno potrà mai portarmi via, e mi resta la certezza che vincere uno scudetto con la Lazio è molto più difficile che in altri club. Per questo la nostra fu un’impresa memorabile”. 



Share This Article
Leave a Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *