La mattina del 30 maggio 1994 l’ex capitano della Roma si suicidò nella villa di San Marco, frazione di Castellabate. Alla famiglia Ago lasciò un biglietto: “Mi sento chiuso in un buco”
Agostino Di Bartolomei, Ago, Diba anzi Dibba, il Capitano, come lo chiamano i tifosi della Roma, muore il 30 maggio del 1994. Ha trentanove anni, da quattro ha smesso di fare il calciatore. Non ha ancora trovato il suo posto nel mondo. Nella voce trattiene una traccia di carbone, lo sguardo restituisce un riflesso scuro, forse è fierezza, forse antica timidezza. Diranno poi che conviveva da mesi con il tormento dell’esilio da quello che era stato il suo mondo, diranno che aveva un carattere introverso e che era serio, troppo serio, schivo, troppo schivo, onesto, troppo onesto e severo verso le mollezze del circo. Diranno che aveva problemi economici, che era troppo pudico per bussare alla porta di qualcuno. Diranno che dieci anni prima – esattamente dieci anni prima, il 30 maggio 1984 – la Roma, la sua Roma, aveva perso la finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico e allora a quel punto qualcuno cercherà nei giri del calendario e nelle date che si rimandano l’eco la spiegazione di un dolore, di un peso, di un’urgenza.
La mattina del 30 maggio 1994 Agostino Di Bartolomei si sveglia presto. La sua compagna, Marisa, e suo figlio Luca stanno dormendo. La sera prima hanno cenato a casa, con alcuni amici. Hanno speso chiacchiere con leggerezza, nessuno ha colto un presagio. La villa di San Marco, frazione di Castellabate, dove vive da qualche anno offre il profilo alla costa del Cilento. Ogni cosa quella mattina – le stanze, il giardino, i mobili, i vecchi cimeli, le fotografie – è avvolta nel silenzio della prima luce. Esce in terrazza, tra le mani ha una Smith & Wesson calibro 38. Gli sono sempre piaciute le pistole. Ne aveva una anche quando giocava, qualche anno prima. Il tempo è un respiro, chissà a cosa pensa adesso mentre punta la pistola al cuore. È un attimo, poi il buio gli scivola dentro.
La sua carriera è stata un lungo romanzo giallorosso, cominciato nel 1972 e chiuso nel 1984, con una sola interruzione, un prestito al Lanerossi Vicenza, in Serie B. Poi tre anni al Milan, uno a Cesena e due a Salerno, in attesa di cominciare una carriera – quella di allenatore – che invece non è mai iniziata. Il punto più alto è stato lo scudetto del 1983. Era la Roma del Divino Falcao e del Bomber Pruzzo, di Conti e Nela, di Tancredi e Vierchowod. Di Bartolomei, di quel gruppo era il capitano, mezzala lenta ma di fosforo, dotato di un tiro formidabile: la sua specialità erano i calci di punizione. “Botta tremenda di Di Bartolomei ed è gol”: così lo celebravano i radiocronisti di “Tutto il calcio minuto per minuto”. Si distingueva per il carisma, quell’aura che circonda i giusti. Antonello Venditti gli ha dedicato una canzone, “Tradimento e perdono”. C’è una strofa che fa così: “Ricordati di me mio capitano/cancella la pistola dalla mano/Se ci fosse più amore per il campione oggi saresti qui”.
Alla sua vicenda è ispirato il film “L’uomo in più”, di Paolo Sorrentino. Il presidente della squadra di calcio, nella finzione cinematografica, si rivolge così al protagonista: “Antò io ti devo dire quello che penso: penso che il calcio è un gioco, e tu sei un uomo fondamentalmente triste”.
L’anno scorso il municipio VIII di Roma insieme al Comitato di Quartiere Ardeatino-Tor Marancia gli ha dedicato una targa speciale. Anche oggi qualcuno passerà di lì, sfiorerà con lo sguardo il suo nome e ripenserà ad Ago, che una mattina di quarant’anni fa uscì di scena senza fare rumore, così come aveva vissuto. Il giorno del funerale, Nils Liedholm, il suo maestro, in una lettera aperta raccontò tutta la sua angoscia: “Perché ti sei ucciso, Agostino? Non me lo spiegherò mai. Non parlatemi della forza della disperazione, dell’attimo di follia. Non ci credo”. Alla famiglia Ago lasciò un biglietto: “Mi sento chiuso in un buco”. Il silenzio, uno sparo, la fine.
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