Stefano Mauri, intervista: “Il calcioscommesse, la Lazio, Lotito, i derby…”

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L’ex capitano della Lazio finito nel vortice del calcioscommesse: “Finii in galera all’improvviso, ero il nome da dare in pasto alla gente. Lì ti senti svuotato, ma dopo non hai paura di niente. Ho preso sei mesi per omessa denuncia, ma ancora oggi non c’ho capito tutto…”

Francesco Pietrella

Giornalista

Stefano Mauri a vent’anni si tatuò il futuro sul polpaccio senza saperlo: “Giocavo nel Modena, scelsi una carpa. Ho scoperto che simboleggia la perseveranza. Il superare le avversità. Considerando ciò che mi è successo dopo, direi che ho fatto centro”. L’ex capitano della Lazio oggi studia da agente con Lodovico Spinosi, ma tra un ricordo e l’altro ripensa a quei sette giorni in carcere leggendo le pagine dell’inchiesta sul calcioscommesse. “A distanza di quasi 15 anni so che la gente penserà a me come quello che ‘si è venduto le partite’, ma non è mai stato così”.

“Tanto. È stato il momento più brutto della mia vita, qualcosa che non auguro a nessuno. All’alba del 28 maggio 2012 finii in carcere da innocente, accusato di associazione a delinquere e frode sportiva. Prima di essere ascoltato dal giudice passarono cinque o sei giorni”. 

“La galera ti fortifica”, ha detto. 

“Sì, dopo non ti fa paura più niente. Sei a contatto con persone che col calcio non hanno nulla a che fare, ti senti svuotato”. 

Come passava le giornate? 

“A leggere le carte. Erano più di mille pagine, e ancora oggi posso dire di non aver capito tutto. S’è parlato del nulla, si sono tirati in ballo dei nomi e io ero quello da dare in pasto ai media. Alla fine, sono stato squalificato per sei mesi per omessa denuncia”. 

“Ho fatto degli errori”, disse. Cos’è che non rifarebbe?

“Essere stato leggero su alcune amicizie”. 

Cosa le ha insegnato quella vicenda? 

“A capire chi ti vuole bene. Come i tifosi della Lazio e la società: non mi hanno mai lasciato solo”. 

Cos’ha rappresentato essere il capitano? 

“Oneri, onori, responsabilità. Un orgoglio che mi porto dietro ancora oggi, quando la gente mi riconosce per strada”. 

È vero che dopo il suo rendimento migliorò? 

“Se guardiamo i risultati, forse è vero: nel 2013 vinsi la Coppa Italia contro la Roma. Ora posso dirlo: ci rimasi male a non partire titolare, ma quel trofeo fu magico”.

Inutile chiederle del suo gol più bello. 

“La rovesciata contro il Napoli, 7 aprile 2012, due mesi prima di andare in carcere. Assurdo, ma incredibile. Prendo in giro Radu dicendogli che crossando a casaccio è entrato nella storia”. 

Fantasista, esterno, falso nove. Ruolo preferito? 

“Un centrocampista offensivo a cui non piaceva la fase difensiva. Anche se quando c’era da rincorrere gente come Pirlo lo facevo”. 

E nei derby dava il meglio di sé. 

“Ai giallorossi ho segnato tre gol. E dopo la squalifica tornai proprio contro la Roma. Nel 2012 De Rossi mi diede un pugno, ma a fine partita venne a chiedermi scusa. Un gesto da signore”. 

Il bello è che Spalletti la voleva… alla Roma. 

“Sì, mi aveva allenato all’Udinese. Ci fu un contatto, ma i giallorossi avevano il mercato bloccato e non se ne fece nulla”. 

La sua Lazio più forte? 

“Mi sono divertito in quella di Pioli, con Felipe, Candreva e Klose, ma anche in quella di Reja. Ogni allenatore mi ha lasciato qualcosa. Anche Ballardini, con cui vincemmo la Supercoppa contro la futura Inter del Triplete e poi rischiammo di retrocedere. Avevamo paura”. 

“La prima volta che lo vidi mi disse ‘Oh, qui c’è da pedalare’. Da capitano, andavo da lui per trattare i premi di squadra. Si presentava due ore dopo e ti prendeva per sfinimento. Quando gli proponevamo qualcosa, lui diceva ‘Aò, ma siete matti? Io prendo meno di voi…’”. 

I compagni che le hanno dato più soddisfazione? 

“Il primo è Tommaso Rocchi, ci capivamo al volo. Ricordo un 2-2 contro il Real in Champions con lui e Pandev davanti e io dietro di loro. Poi gli amici Behrami e Brocchi, e infine Klose. Ogni tanto lo vedevi andare a riprendere i palloni a fine allenamento per metterli nella sacca. Giocava sempre coi tacchetti a 6 di ferro per fare perno sul terreno. Dava l’esempio solo con l’atteggiamento. Un campione, come Baggio. Ho giocato con lui a Brescia. Parlava di quanto amasse la caccia. Ho avuto la fortuna di esserci alla sua gara d’addio a San Siro”. 

Col Milan, la squadra contro cui lei esordì in A. 

“Settembre 2002, davanti alla mia famiglia. Fino a pochi anni prima giocavo nei dilettanti e lavoravo con mio zio: lo aiutavo a realizzare caschi. Ho anche un diploma in elettronica e comunicazioni. Se non avessi sfondato nel calcio, avrei vissuto di quello. A Modena capii che avrei fatto il calciatore e che la mia famiglia avrebbe avuto un “peso” in meno. Mio padre, ex calciatore e allenatore nei dilettanti, lavorava alla Sim, mia madre alla Piaggio. Non mi hanno fatto mancare niente”. 

“Non aver giocato un Europeo o un Mondiale. L’avrei meritato. Ma nei momenti clou ho sempre avuto alcuni infortuni”. 

Mai stato vicino a Juve, Inter e Milan? 

“Qualcosina c’è stato, ma Lotito non mi ha mai lasciato andare. E io volevo restare alla Lazio”. 

A distanza di anni le va di spiegare la sua esultanza (con i pollici che sfregano gli indici)? 

“Prossima domanda, grazie”. 



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