Severgnini: “Inter, hai vinto tanto ma impariamo dalle sconfitte. Mai deludere i tifosi”

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Lo scrittore e giornalista parla del suo amore nerazzurro “Abbiamo vinto tanto, ma impariamo anche dalle sconfitte perciò ritengo che il calcio abbia una funzione educativa”

Matteo Dore

Giornalista

Si definisce un nonno felice. Ha raccontato l’Italia e il mondo, gli piace incontrare le persone, soprattutto i giovani, e spesso con loro parla di calcio. Soprattutto di Inter. Beppe Severgnini ha fatto diventare la passione nerazzurra una parte integrante della sua vita, anche professionale. Sull’Inter ha scritto libri e, oltre a essere editorialista del Corriere della Sera, ha collaborato a lungo anche per la Gazzetta. Adesso sta lavorando soprattutto a un progetto: far diventare la sua nipotina Agata una vera interista. Ma lui perché da piccolo aveva scelto l’Inter? “Perché vinceva tutto quando ero alle elementari e la squadra che vince è quella che piace, è la regola che io chiamo del ‘carro del vincitore’. Vale per i bambini e più in generale anche per gli italiani adulti”. 

Prima volta a San Siro? 

“A vedere un noiosissimo Inter-Lazio, finito 0-0. Era l’aprile 1967, avevo dieci anni. Mi ricordo Idilio Cei, il loro portiere, che era del tutto uguale al mio salumiere, anche come corporatura, e io mi domandavo: ma perché il mio salumiere è in porta? Mi aveva portato mio cugino Pierangelo, che era milanista”. 

In quegli anni l’Inter giocava partite più importanti. Nel ‘64 aveva vinto la Coppa Campioni contro il Real Madrid. 

“Ero a casa con mio papà, interista blando, l’ho guardata dal divano. Erano anni in cui le televisioni erano grandi come una scatola di cioccolatini. Mi ricordo queste figurine che si muovevano sfuocate, però mi sembrava meraviglioso”. 

Nel ‘65 l’Inter rivince la coppa, con il Benfica. 

“Stavolta avevamo cambiato il televisore. Era più grande”. 

Nel 1967 la prima finale persa. 

“La ricordo ancora meglio, innanzitutto per la maglia del Celtic che ho sempre trovato bizzarra e bellissima, ma soprattutto perché fu una profonda delusione. Io credo che il calcio sia educativo perché allena alle sconfitte, insegna a gestire le aspettative e le delusioni. Ti servirà nel lavoro, nell’amore, nell’amicizia”. 

Altra sconfitta pochi anni dopo, contro l’Ajax nel 1972. 

“Un caso diverso. Ci sono partite, come quella che ho visto a Monaco poche settimane fa, in cui gli avversari sono così forti che non puoi, se ami il calcio, non accettare la differenza. Se giochi contro Cruijff e lui vince devi solo applaudire. In quel caso l’Inter almeno ci aveva provato, con il Psg mica tanto”. 

Come è stata la delusione di Monaco? 

“Ero allo stadio. Bastava guardare la gioia dei giocatori del Psg durante la preparazione e le facce di quelli dell’Inter per capire che sarebbe stata una giornata difficile. Certo, non immaginavo così difficile… Ero anche a Madrid, nel 2010, l’anno del Triplete, e non avevo dubbi che avremmo vinto. Invece non ero presente a Istanbul con il City”. 

Ma alla fine la scorsa stagione è stata positiva perché l’Inter si è giocata tutti i trofei o negativa perché non ha vinto nulla?

“Non userei nessuno di questi due aggettivi. È stato un anno istruttivo se mai vorremmo imparare qualcosa. Dico però che sono rimasto deluso da Inzaghi: credo che se tu porti i soldati nella battaglia decisiva e quelli hanno capito che il loro generale ha già pronta la nuova bandiera, beh, i soldati combattono in un altro modo. E a Inzaghi ricordo, se mai leggerà questa intervista, che i tifosi sono come i bambini: non bisogna mai deluderli, perché i bambini non dimenticano e i tifosi neanche”. 

Adesso nella famiglia Severgnini c’è una nuova bambina, Agata. 

“Ha poco più di tre anni, è la figlia di mio figlio Antonio, che è un grande tifoso. Una delle cose che amo dell’Inter è che è una passione che ho potuto condividere con lui. Agata era già con il cappellino nerazzurro pochi giorni dopo essere nata. Cresce bene, sa cantare ‘Per la gente che…’. Ci alterniamo nelle strofe. Io dico ‘per tutti quei chilometri…’ e lei va avanti: ‘…che ho fatto per te, Internazionale devi vincere’. Nonostante la mamma milanista che la lavora ai fianchi, è impostata bene”. 

C’è un giocatore interista che è stato una sorpresa dopo averlo conosciuto? 

“Ivan Cordoba. Uno che in campo sembrava una belva e invece fuori è dolce, corretto e affidabile”.

Ma il tifo è uguale in tutto il mondo? O ci sono differenze tra i vari Paesi? 

“Il fattore comune è che il tifo è una rappresentazione di tutto quello che ci passa nel cuore e nell’anima: è passione, lealtà, memoria, entusiasmo, gioia assoluta, delusione profonda. Il tifo è un’educazione sentimentale, non è razionale o logica. La politica l’ha capito e sta imitando questo meccanismo. Faccio un esempio: quella per Trump non è passione politica, è tifo. E non mi piace. Quando la passione politica diventa tifo, diventa irrazionale e si perdona quello che è imperdonabile”. 

C’è poi il tifo negli stadi che diventa, in qualche caso, delinquenza. 

“Quelli non sono tifosi. Voglio essere chiaro: è un imbroglio dire che o tu accetti certi meccanismi o non puoi avere colori e tifo allo stadio. Le coreografie le puoi fare anche senza essere delinquente. Invece noi tifosi abbiamo deciso per amore di non vedere, le società di non guardare, i governi hanno deciso di rimandare. Una persona che ha affrontato a muso duro la criminalità nelle curve è stato Gianluca Cameruccio, il responsabile della sicurezza dell’Inter. Il presidente Marotta lo ha voluto, e lui non si è tirato indietro. È comprensibile che, visto il suo ruolo, di lui si sia parlato poco. Ma onore al merito”.



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