Pizzul, un gigante dietro a un microfono: l’intuizione di Paolo Valenti

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Il suo giornalismo? Mai urlato, né enfatizzato. Denso, semmai. La notte dell’Heysel, la più difficile e la più esemplare

Giorgio Burreddu

Collaboratore

Quello di Pizzul è stato un calcio polifonico. Bello, acuto, sonoro. Narrativo, soprattutto. E però anche rigoroso e preciso, come richiedeva il mestiere. D’altra parte, disse nella sera più tragica della sua carriera, “è anche compito del cronista cercare di dare le notizie a mano a mano che giungono: chiedo scusa a tutti per la frammentarietà delle informazioni”. Quella notte fu l’Heysel, 29 maggio 1985. L’Italia guardava scorrere la tragedia in tv. In silenzio. La polizia che si riversava in campo (“Entrano in campo le forze dell’ordine, magari ci si sarebbe potuto pensare prima”), l’incredulità, il senso di angoscia, di sospensione. E a descrivere tutto c’era Bruno Pizzul. “A questo punto il risultato diventa assolutamente irrilevante”.

È compito del cronista cercare di dare le notizie a mano a mano che giungono: chiedo scusa per la frammentarietà delle informazioni

Bruno PizzulLa notte dell’Heysel

Di quella notte tragica a Bruxelles, con i suoi 39 morti, Pizzul conserverà sempre intatto il ricordo. Anni più tardi confesserà che quella fu “la telecronaca che non avrei mai voluto fare, non tanto per un discorso di difficoltà giornalistica ma perché quel giorno ho dovuto raccontare delle cose che non sono proprio accettabili a livello umano”. 

il concorso

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Non se n’è andata solo una voce inconfondibile, iconica per molte generazioni. La scomparsa di Pizzul a 86 anni chiude davvero un’età del giornalismo. Mai urlato, né enfatizzato. Denso, semmai. In cui lo spazio per gli orpelli e le cesellature avevano la giusta misura, una medietà mai fastidiosa. Cominciò giocandolo, il calcio. Nella Cormonese, la squadra della parrocchia. E poi aveva girato: Gorizia, Catania, Ischia, Udinese, Torres, Pergocrema. Pizzul aveva immaginato per sé una carriera di gioco e contrasti. Ma la vita, si sa, non è mai come la pensi. Si fece male e lasciò. Avrebbe voluto fare il calciatore?, gli chiesero quando già aveva le rughe. “Speravo e sognavo. Poi capii che la mia passione era inversamente proporzionale al talento. Ero riuscito a laurearmi, insegnavo alla medie di Gorizia. La Rai di Trieste organizzò un concorso per programmista. Non si presentò nessuno e mi invitarono a partecipare in quanto giovane laureato”. Era stato Paolo Valenti a vederlo giocare. Lo aveva notato per l’altezza, “non certo per la bravura”.

Mi ero laureato, insegnavo alla medie di Gorizia. La Rai di Trieste organizzò un concorso per programmista. Non si presentò nessuno e mi invitarono a partecipare

Bruno Pizzul

Fu lui a dirottarlo sul concorso per radio-telecronisti. Per Pizzul era come andare a bottega, proprio come i grandi artisti del rinascimento. Aveva talento e unicità, fattori straordinari. Ma Bruno Pizzul non era solo una voce, quelle c’erano già state agli albori del giornalismo. Con lui le immagini e le nostre emozioni avevano fatto un salto nella modernità. 

l’incontro con beppe viola

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Entrò in Rai nel 1969. La prima telecronaca arrivò un anno più tardi: uno spareggio di Coppa Italia, a Como, tra Bologna e Juventus. “Fu un momento particolarissimo, mentre stavo per imbarcarmi passò di lì Beppe Viola, più che un collega un fratello. ‘Dove vai, a Como? Ma giocano alle tre, in mezzora arriviamo. Ti accompagno io’, disse. Andammo a mangiare con calma e poi andammo verso Como, ma la Brianza era mobilitata e arrivammo con quindici minuti di ritardo. Le partite andavano in onda in differita, riuscii a coprire quel quarto d’ora in studio”.

Tutto molto bello”. “Ha il problema di girarsi”. “La battuta di prima intenzione

Bruno Pizzul

Pizzul non è stato un linguaggio, ma ne piegò uno al suo servizio. “Dicevano che il mio era eccessivamente forbito per l’animosità”. Usava l’acuto come pennellate. Mai davvero dolci, molto poco raffaellesche. Quelle di Pizzul erano più nette, concrete, ti entravano dentro e non ti scollavano più. “Erano parole che mi venivano sul momento, non le avevo preparate prima”. Con Pizzul non c’è solo un campionario, ma frammenti che diventano immagini. “Tutto molto bello”. “Ha il problema di girarsi”. “La battuta di prima intenzione”. O ancora: “Lo sciabordio. Chissà come mi venne. Forse per qualcosa legato alla navigazione”. 

telecronache e delusioni

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Negli anni Settanta aveva commentato il canottaggio e qualche tappa di ciclismo, al Giro e al Tour, ma il calcio è stato lo sport che ha legato Pizzul all’Italia e alla gente. Dalle Notti Magiche di Italia 90 fino ai rigori di Pasadena a Usa 94 (con l’ultimo di Baggio: “Alto. Il Campionato del Mondo è finito, lo vince il Brasile”), l’azzurro splendente e quello tenebra: tutte le nazionali sono passate attraverso il suo racconto e il suo sguardo: Pizzul ha raccontato cinque Mondiali e quattro Europei. Il mondiale negli States fu anche il primo grande prodotto di massa.

Alto. Il Campionato del Mondo è finito, lo vince il Brasile

Bruno PizzulL’ultimo rigore di Usa 94

E Pizzul era lì, non solo per raccontarlo, ma per renderlo più nobile. “Molto si è detto dei due Baggio. Non avevo deciso: mi veniva di chiamarli proprio per nome, Dino e Roberto. In effetti è diventato un tormentone”. A fine carriera gli ricordavano spesso che, però, beh, un’Italia campione del mondo mica era riuscito a raccontarla. Lui, gentile, affabile e calmo, rispondeva sempre che “sì, l’avrei detto volentieri, ma non ho mai perso il sonno per questo. L’edizione che mi è pesata di più è stata quella di Italia 90. Ma mi sono ripagato ampiamente perché le squadre di club vincevano a manbassa”. Nel 1973 la vittoria della Coppa delle Coppe che il Milan conquistò battendo il Leeds. E poi, negli anni Ottanta e Novanta, quando eravamo re, Pizzul raccontò i successi in Europa. Quelli del Milan di Sacchi in Coppa Campioni, quelli dell’Inter di Trapattoni e del Napoli di Maradona in Coppa Uefa a Stoccarda (“Imperturbabile la maschera di Ottavio Bianchi”). La Lazio a Maiorca in Coppa delle Coppe con quel gol di Vieri che ancora oggi, a sentirlo, è “uno stacco strepitoso, gol eccezionale, una prodezza incredibile”. C’era lui quando il Torino di Mondonico arrivò in finale di Uefa ad Amsterdam. C’erano sempre, con Pizzul, “ultimi palpitanti attimi della partita”. La vittoria in Coppa delle Coppe della Sampdoria, 9 maggio 1990, finale con l’Anderlecht, doppietta di Gianluca Vialli nei tempi supplementari, dopo 120 minuti di gara. Ma anche quella dell’Inter di Ronaldo in Coppa Uefa contro la Lazio nel 1998. 

la famiglia

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A un certo punto il rapporto si invertirà: sarà il calcio a passare dalla voce di Pizzul. Gentile, di una nobiltà quasi contadina, Pizzul era figlio di un macellaio e di una casalinga. Una volta tornò a casa con un’insufficienza: il padre gli regalò una bici, la madre lo mandò a letto senza cena. “Quando sento che qualcuno si interessa a me alle mie esperienze, resto sempre un po’ perplesso. Il motivo è semplice: mi compiaccio di non essere mai riuscito a prendermi troppo sul serio”. Ha avuto tre figli, tra cui Fabio che ha seguito le orme del padre nel giornalismo per poi dedicarsi alla politica, e undici nipoti. Non aveva la patente: “Guida mia moglie, la Tigre”.

Mi compiaccio di non essere mai riuscito a prendermi troppo sul serio

Bruno Pizzul

L’ultima sua Italia, prima della pensione, fu una partita contro la Slovenia nel 2002. “Non ho più voluto il contratto fisso perché se lo fai poi devi fare quello che ti chiedono”. Libero, spensierato, scanzonato. Pizzul non si è mai sottratto a niente. Una volta gli chiesero di commentare la Ribolla gialla, e lui lo fece (tutto in friulano).

anche “attore”

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Ha fatto il cinema, anche nella parte di se stesso. Nel 1974 “L’arbitro”, al fianco di Lando Buzzanca. O “Fantozzi” nel 1996. Lo cercavano anche quando era già in pensione: nel 2011 ha avuto un piccolo cameo in “Box Office 3D – Il film dei film”. Nel 2014 doppiò il telecronista di Pelé. Gli chiesero anche di commentare l’Isola dei Famosi. Disse: “No no, non ci vado. Io sto a Cormons, qui si sta bene”. Figlio di altri tempi, tempi in cui le persone le potevi ancora toccare, sentire, vivere. E anche raccontare in un altro modo. “I rapporti con i giocatori erano semplici e diretti. Quando si andava a fare le interviste ci si fermava a giocare a carte, a biliardo. A ciapanò. Alla Juventus erano artisti nello scopone scientifico. All’Inter a scopa d’asso”. A Cormons, settemila abitanti, Pizzul era cresciuto e lì era tornato. Prima della finale dell’Europeo 2021 tra Italia e Inghilterra allestirono una sagra di paese, con le tavolate di piazza, i festoni, la gente. Pizzul si sedette davanti a un mini-schermo, microfono alla mano, una t-shirt color rosa. Lesse le formazioni. Anche lì lasciò qualche pennellata: “Piove su Londra”. Una volta ha detto: “I cronisti? Sono tutti bravi, persino troppo. E qualche volta ho la sensazione che sia la televisione a raccontare se stessa più della partita”. Si godeva il suo mondo, a casa sua: “Ogni tanto viene qualcuno. Si gioca a briscola: vale tutto e si litiga di meno”.



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