Pisacane, dalla malattia alla panchina del Cagliari

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Una vita in salita, sempre controcorrente, ma anche ispirata a sani principi, che dopo la malattia gli hanno dato la forza di ribellarsi a una proposta di combine. Adesso, la grande occasione: nella “sua” Cagliari, il salto dalla Primavera alla prima squadra

L’uomo venuto dal dolore è abituato da sempre allo schiaffo del vento, sa come si raddrizza quel legno storto che chiamiamo vita, custodisce il dono prezioso della tenacia. Si chiama Fabio Pisacane, è il nuovo allenatore del Cagliari. La sua potrebbe essere una storia da derubricare tra le tante, in questi giorni convulsi di calciomercato. Ma non lo è. È una storia speciale che comincia una mattina di venticinque anni fa quando Fabio si sveglia, prova ad alzarsi e no, non ci riesce. Tenta di muovere il braccio, ma il braccio rimane immobile. Si sente di marmo, i pensieri scappano ovunque, senza un dove, come cani lasciati liberi davanti a un prato. I muscoli non rispondono più alle intenzioni. Fabio è un ragazzino, ha solo quattordici anni. È nato a Napoli, cresciuto nei Quartieri Spagnoli. La prima squadra ha un nome poetico, la Celeste, ma la poesia – nella sua vita – è sempre stata qualcosa da grattare nella limatura del ferro, sporcandosi le unghie e l’anima. Da poco è stato scelto dal Genoa, giorno dopo giorno coltiva il sogno di diventare un calciatore. Quella mattina la vita si ferma, come a un semaforo che rimane sempre rosso. Viene visitato da vari specialisti. Qualcuno scuote la testa, altri formulano le ipotesi più disparate. Alla fine gli viene diagnosticata la sindrome di Guillain-Barré. È una malattia rara, colpisce una persona su centomila. Danneggia i nervi periferici, ossia i nervi che connettono il sistema nervoso con il resto dell’organismo. È una luce che si spegne all’improvviso. In taluni casi può evolvere verso la paralisi totale. Gli dicono che forse non camminerà più, provano a fargli capire che deve metterlo in conto. Gli spiegano che l’evoluzione della malattia è imprevedibile. Fabio trascorre quattro mesi in ospedale, due settimane in coma, altro tempo – molto altro tempo – in riabilitazione. Oggi dice che quello è stato il periodo più importante della sua vita, oggi sa che la vita – ogni tanto – si prende una pausa per dirci qualcosa, o forse no, non vuole dire nulla, lo fa e basta. Fabio è fortunato, perché dopo l’angoscia arriva il sollievo. La vita si scuote, ricomincia con le sue giornate di allenamenti, sogni da rincorrere. Nel dipanarsi del curriculum diventa un calciatore professionista, si sposa con una ragazza, Rosy, che conosceva da sempre, fin da quando era un bambino, insieme hanno due figli. Il suo ruolo è quello del difensore. Ha colpo d’occhio e tempra, non si tira indietro quando infuria la battaglia. A sostenerlo non ci sono piedi delicati, niente affatto, lui stesso racconta ridendo che gli riesce un cross ogni dieci, ma è forte di una credibilità costruita nel tempo.

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