Pellegrini: una vita da interista. Dall’infanzia da tifoso alla presidenza

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Milanese, tifoso dei nerazzurri sin da piccolo, verrà ricordato oltre ai successi per la sua grande umanità. E dire che Fraizzoli rischiò di vendere l’Inter a Berlusconi anziché a lui

Matteo Dore

Giornalista

Ernesto Pellegrini è stato un grande presidente dell’Inter. Ma sfortunato. Ha vinto lo scudetto dei record, quello del 1988-89, ha portato a Milano uno dei più grandi allenatori italiani di tutti i tempi, Giovanni Trapattoni, ha fatto vestire la maglia nerazzurra a campioni che ancora oggi sono ricordati con affetto. Per citare solo i tedeschi: Karl Heinz Rummenigge, Lothar Matthäus, Andreas Brehme, Jurgen Klinsmann. Il problema di Pellegrini è sempre stato lo specchio che ha avuto davanti, il confronto a cui era costretto a sottostare. Quasi che lui fosse l’uomo sbagliato, mentre altrove stavano le persone giuste. Anche se non era così.

paragoni

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Però fin dal suo primo giorno da presidente dell’Inter è stato fatto oggetto di un’operazione di diminuzione del suo ruolo, a cominciare dalla storiella – inventata – su una frase attribuita a Gianni Agnelli: “Il cuoco della Juve ha comprato l’Inter”. Solo perché lui era il proprietario dell’albergo di Villar Perosa, dove la Juve andava in ritiro. Poi i paragoni con Silvio Berlusconi, il Re Sole intorno a cui tutta Italia ha girato per decenni. Difficile non scottarsi. E i raffronti con chi c’era prima di lui negli anni d’oro dell’Inter, Angelo Moratti, e chi è venuto dopo, Massimo Moratti. Loro con le Coppe dei Campioni e lui con un paio di Coppe Uefa. Eppure la storia di Ernesto Pellegrini dimostra che lui è un numero 1. E che di record ne ha stabiliti tanti.

milanese

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Vero spirito milanese, è nato nel dicembre del 1940 nella periferia della grande città. A Morsenchio, che oggi è solo un quartiere indistinguibile dagli altri nella zona Sud-Est, ma allora era un vero e proprio borgo in mezzo agli orizzonti piatti dei campi coltivati e delle cascine. Lavoro e fatica. Fede in Dio e nella cultura del sacrificio. L’Italia in cui cresce Pellegrini è quella che si rialza con fatica dalla guerra, dove i ragazzi maturano tra scuola, oratorio, colonia estiva, tiri al pallone e bagni nelle cave: il mondo che era la normalità fino all’altroieri. Quando si viveva di poco e si sognava in grande. I genitori erano contadini e ortolani, vendevano al Verziere, il mercato degli ambulanti, dove anche lui viene spesso portato. E dove impara. Studia ragioneria, viene assunto alla Bianchi come contabile, proprio lì si trova a gestire la mensa aziendale fino a quando decide di mettersi in proprio e di lanciarsi nell’impresa. Con due amori sempre presenti nella sua vita. La moglie Ivana, conosciuta nel 1968, e l’Inter, arrivata molto prima.

ricordi nerazzurri

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Il suo primo ricordo è del 1954 quando, piccolo tredicenne, va a San Siro per vedere la Juventus ma non riesce nemmeno ad arrivare in tribuna e resta sulle scale di accesso, assiepato in mezzo a migliaia di persone. È lì che promette che in futuro avrebbe avuto un posto riservato allo stadio. “Diventerò il presidente dell’Inter”, si dice. Nella cascina dove vive c’è un ragazzo che ha quasi sei anni più di lui, è il figlio del maniscalco, si chiama Luciano Redegalli, gioca nelle giovanili dell’Inter e arriverà anche in Serie A, tre presenze con l’Inter 1955-56. È il suo primo idolo e con lui palleggia in cortile. Poi si innamora di Nacka Skoglund e Sergio Brighenti. Un trio che testimonia bene quali sono le qualità che piacciono a Pellegrini: l’umiltà e la fantasia. E la voglia di lavorare sodo per arrivare in alto. Anni dopo avrebbe ricordato: “Quanto mi piaceva Skoglund. Lo vedevo in piazza Mercanti dove andava a farsi lucidare le scarpe e mi luccicavano gli occhi per l’emozione”.

la ristorazione

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La sua azienda cresce. La ristorazione è un business solido. All’inizio degli Anni Ottanta si propone a Ivanoe Fraizzoli che lo coopta nel consiglio di amministrazione. E nel 1984 acquista l’intero pacchetto azionario diventando, a 43 anni, il presidente della sua squadra del cuore. Lo sarà per un decennio. Pieno di speranze e delusioni, ma anche di vittorie. Il suo vero guaio è che due anni dopo Silvio Berlusconi comprerà il Milan e la lotta di Pellegrini diventerà titanica. La curiosità è che – se è vero quello che ha raccontato Vittorio Dotti ex avvocato Fininvest – Berlusconi avrebbe potuto prendere l’Inter. “Nel 1982 Berlusconi fu preso dalla smania di comprare l’Inter. Come imprenditore televisivo aveva avuto una grande intuizione: il mondo del calcio è un immenso bacino di pubblico; ogni tifoso è un potenziale consumatore; ogni consumatore è un potenziale utente televisivo.

Gli ingranaggi del pallone e quelli della tv si sarebbero sincronizzati alla perfezione, mettendo in moto una poderosa macchina da soldi. Il ragionamento filava tranne che per un particolare: ‘Se sei milanista – gli feci notare – perché non compri il Milan?’. E lui: ‘Purtroppo non posso. Il mio mago mi ha detto che mi porterebbe sfortuna’”. Chissà come sarebbe cambiata la storia se Berlusconi non avesse dato retta al suo mago… Il racconto di Dotti svela anche perché alla fine Fraizzoli scelse Pellegrini

Vade retro, milanista

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Il racconto prosegue, è sempre Dotti a parlare: “Andai con Silvio a trovare Fraizzoli. Aveva il suo ufficio in via Carducci dove ci accolse con una certa curiosità. Berlusconi gli parlò dei suoi progetti, voleva acquistare la squadra, era disposto a pagare bene. Fraizzoli tentennò: con due scudetti vinti in quasi 15 anni, la sua gestione non era stata esaltante. Il vecchio presidente dai capelli bianchi sentiva di aver fatto il suo tempo: di lì a pochi mesi avrebbe passato le consegne a Ernesto Pellegrini. Vendere a Berlusconi sarebbe stata un’opzione più vantaggiosa, ma disse di no. Fu una questione di fede. Affidare l’Inter a un noto milanista era una di quelle cose che non si potevano fare”. Pellegrini, dunque. Che inizia la sua avventura interista nel 1984 con un grande colpo di mercato: Karl Heinz Rummenigge. Ma le prime stagioni danno solo delusioni. Il Panzer strappato al Bayern, a Milano più che i difensori avversari deve dribblare vari guai fisici, soprattutto nella terza stagione. E intorno a lui si alternano giocatori che non danno quello che si sperava: Liam Brady e Daniel Passarella, per fare solo due esempi.

svolta

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La svolta è nell’estate del 1988, quando il mercato porta ad Appiano Gentile Lothar Matthäus, Andy Brehme e Ramon Diaz. Che con Nicola Berti e Alessandro Bianchi si dimostreranno fondamentali nella conquista dello scudetto dei record – targato Trapattoni – che arrivò matematicamente il 28 maggio 1989, quando fu superato il Napoli a San Siro per 2-1, a 4 giornate dal termine. Alla fine l’Inter conterà 58 punti sui 68 disponibili. La seconda in classifica – il Napoli di Maradona – dietro di 11 lunghezze. Purtroppo questo scudetto resterà l’unico, perché i vari Klinsmann, Sammer, Shalimov, Ruben Sosa, Pandev e Bergkamp che arriveranno dopo, non riusciranno più a conquistare il tricolore. Però ad arricchire la bacheca della gestione Pellegrini ci sono anche 2 Coppe Uefa (‘91 e ’94) e una Supercoppa italiana (’90). Pellegrini, più che le vittorie, è orgoglioso che di lui si ricordi soprattutto l’integrità. “Sono stato definito ‘presidente gentiluomo’, ma a me piace rimarcare l’onestà”. Pochi anni fa, quando ha festeggiato il mezzo secolo di attività imprenditoriale, ha invitato alla Scala di Milano 1300 persone per ascoltare un concerto di Ennio Morricone. Lui si è seduto tra Massimo Moratti e Giovanni Trapattoni e ha ascoltato le parole di Rummenigge: “Pellegrini mi ha insegnato a fare il presidente e a essere umano. Un gentiluomo. E oggi non ce ne sono tanti”.

gli ex

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È rimasto in buoni rapporti con tutti i suoi giocatori. Qualcuno di loro, come Bergomi, Ferri e Baresi, lo andavano a trovare spesso e si prestavano a essere testimonial di qualche sua iniziativa benefica. Era rimasto un rapporto di affetto anche con gli allenatori che ha avuto, anche con quelli che ha esonerato e a cui più tardi ha chiesto scusa. Spesso pubblicamente. Da Ilario Castagner, il primo che aveva scelto, a Osvaldo Bagnoli, che dopo quella delusione promise di ritirarsi e ha mantenuto la parola rifiutando tutte le offerte di lavoro ricevute negli anni seguenti. Pellegrini, che aveva trovato l’allenatore perfetto in Trapattoni, ha fatto sedere in panchina anche ex della Grande Inter: Mario Corso e Luisito Suarez sono arrivati a stagione in corso e sono rimasti poco. Come è capitato a un ex di un’Inter più recente, come Gianpiero Marini. Fra i meriti di Pellegrini c’è anche il coraggio di aver creduto in una scommessa come Corrado Orrico, anche se l’allenatore toscano, famoso per i suoi sigari e le divertenti battute polemiche, è durato solo pochi mesi. L’ultimo è stato Ottavio Bianchi in panchina nella stagione che ha segnato la fine della presidenza di Pellegrini, nel 1995. Lasciata la società a Massimo Moratti, il “sciur Ernesto” è tornato ai suoi affari. Rispettato dai tifosi e da chi vuole bene all’Inter. La sua azienda è cresciuto fino ad avere quasi diecimila dipendenti. Fra le sue ultime iniziative l’apertura di un ristorante chiamato Ruben. È il suo modo modo di restituire, almeno un po’, quel tanto che ha avuto. Menu completo e prezzo simbolico di un euro, per salvare la dignità e allontanare l’idea dell’elemosina. Il nome è quello di bracciante della cascina della sua infanzia, morto assiderato in una baracca: Ruben, dimenticato da tutti. “Avevo il rimorso di non aver potuto fare nulla per lui e l’ho ricordato così, facendo qualcosa di utile agli altri”. Questo è Ernesto Pellegrini, il presidente dei record. Non solo quando si parla dello scudetto dell’89.



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