Ci ha pensato tanto, ha deciso all’ultimo momento. In macchina, diretto negli uffici della radio svedese P1, Sven Goran Eriksson ha capito che doveva rompere la corazza che in questi mesi si era costruito attorno. E ha deciso di raccontarsi. Lo ha fatto a modo suo: tono pacato, gentile, dimostrazione che anche la notizia più terribile non intacca la signorilità dell’uomo. «Tutti hanno capito che non sto bene, immaginano sia cancro e lo è — le parole dell’allenatore del secondo e ultimo scudetto della Lazio —. Nel migliore dei casi mi resta da vivere un anno, nel peggiore molto meno. Impossibile dirlo con esattezza, meglio non pensarci. Ma devo combattere il più a lungo possibile». Tumore al pancreas, scrivono nella sua Svezia, lo stesso che ha portato via Gianluca Vialli: «I medici mi hanno detto che non è operabile — ha spiegato —. Mi sto curando, così posso rallentarlo».
Lo svedese, 75 anni: «Quando ricevi una notizia del genere apprezzi ogni giorno, sei felice quando ti svegli la mattina e ti senti bene»
Della malattia di Eriksson, 75 anni, sapevano in pochissimi. Tra questi, i dirigenti del Karlstadt, piccolo club della terza divisione svedese di cui è stato d.s. fino allo scorso febbraio. Poi il passo indietro, le dimissioni per «problemi di salute che sono sotto accertamento», aveva detto undici mesi fa senza entrare nel dettaglio. Ora, invece, Svennis (così lo chiamano in Svezia) spiega come sono andate le cose: «Stavo bene, poi un giorno a casa sono crollato. I miei figli mi hanno portato in ospedale, e dopo una giornata di esami ho ricevuto il verdetto dei medici: “Ha avuto cinque piccoli ictus, da cui recupererà. Ma ha un cancro”. Non so da quanto lo avessi, forse un mese o un anno. Ho scoperto di avere un tumore all’improvviso, il giorno prima avevo corso per cinque chilometri». Aprirsi in pubblico non è stato semplice: «Prima di parlarne ha dovuto accettare di essere malato. Ha pensato molto a come e quando farlo. È stata dura», ha spiegato all’Expressen il manager e amico Anders Runebjer.
Un allenatore elegante, come il gesto che ripeteva in panchina: gli altri tecnici urlavano e sbracciavano, lui con calma olimpica puliva gli occhiali. A chiamarlo in serie A, nel 1984, la Roma di Dino Viola, poi Fiorentina, Sampdoria e Lazio, condotta nel 2000 alla conquista dello scudetto (in bacheca pure una Coppa delle Coppe, una Supercoppa europea e due italiane e due Coppe Italia). Squadra in cui fu maestro per tanti calciatori poi diventati allenatori, tra cui Simone Inzaghi, Mancini, Nesta, Mihajlovic, Conceiçao. Anche l’orgoglio di essere stato il primo straniero chiamato dagli inglesi alla guida della Nazionale, l’opportunità per cui lasciò Roma nel 2001. E ancora mille avventure in giro per il mondo, c.t. di Costa D’Avorio, Messico, Filippine, apripista in Cina. Fino al ritorno a casa, al Karlstadt.
Ora va avanti, provando a godersi quello che gli è possibile: «Quando ricevi una notizia del genere — ha detto — apprezzi ogni giorno, sei felice quando ti svegli la mattina e ti senti bene». Negli ultimi mesi ha girato un documentario sulla sua vita, poi riposo e il calcio in tv. Da allenatore ha subito rimonte incredibili (nel 1999 la sua Lazio superata al fotofinish dal Milan di Zaccheroni), ma ne ha anche compiute (nel 2000 sorpassò la Juve all’ultima giornata). Così un paio d’anni fa consigliava Inzaghi, che con l’Inter inseguiva il Milan per lo scudetto: «Nella vita, e anche nello sport, la parola “mai” non deve esistere. Se non ti arrendi può succedere tutto, pure le cose in apparenza impossibili. Bisogna crederci sempre». Vale anche stavolta.
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12 gennaio 2024 (modifica il 12 gennaio 2024 | 07:04)
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