Theo e Rafa sono due potenziali grandi giocatori che però non sono mai continui. E la società si chiede se il prezzo che paga è giusto
Mi diceva, tempo fa, un grande conoscitore e studioso di calcio: “Qual è il giocatore che ogni allenatore vorrebbe nella propria squadra? Non è importante che sia giovane o meno giovane, un artista o un gregario. Conta solo che sappia affrontare l’ultima in classifica come se fosse una finale di Champions. E che sia capace di affrontare una finale di Champions come fosse una partita con l’ultima in classifica. Perché è nel carattere, nella continuità, che si riconosce il calciatore ideale”. Una sintesi perfetta, che serve a inquadrare la recente storia del Milan, di Leao e di Theo Hernadez: perché, partendo dalla premessa, siamo lontani, lontanissimi, da quell’identikit, su cui – e va riconosciuto – la società ha provato generosamente ad investire. Due potenziali campioni, potenziali leader, potenziali espressioni di classe e dinamismo, due che rappresentano però l’altra faccia della medaglia. Una gara, un gol d’autore, per farsi raccontare come stelle. E poi una serie di partite buie, per pagare il conto all’illusione. È successo anche in casa del Feyenoord, dove tutto il Milan ha deluso, ma dove Leao in particolare ha ciondolato – come troppo spesso gli succede – per 83 minuti, costringendo Conceiçao a sostituirlo, firmando l’ennesima resa all’evidenza. Perché, se ci pensate, è un paradosso dover cambiare l’uomo dei sogni, delle speranze, quando si tratta di raddrizzare una partita. La stessa partita in cui Theo Hernandez si è fatto notare esclusivamente per la sua capigliatura. Una disperazione per lo stesso Conceiçao, che da quelli di maggior carisma si aspettava giustamente una reazione. Invece niente.
E forse il vero errore è proprio quello di voler continuare a credere in qualcosa di diverso, di sfuggire da una verità che tante volte è stata ribadita. Leao e Theo non sono quelli che molti continuano a credere – i salvatori della patria rossonera – ma due potenziali grandi giocatori che non sono e rischiano di non diventare mai i “calciatori ideali” di un allenatore. Anche perché, e in questo sanno essere coerenti, da Fonseca a Conceiçao la musica è rimasta inalterata. Con il primo, è vero, c’è stata addirittura la ribellione pubblica dello stadio Olimpico, dove si sono rifiutati di partecipare al cooling break con i compagni, per manifestare la loro lontananza da certe decisioni. Con il secondo non è successo, ma tra qualche panchina e qualche frase sibillina, stesso risultato. Ora sarebbe ingeneroso – ma avrebbe un senso perché come diceva Enzo Biagi i ricordi sono la nostra fortuna – rifarsi alla storia rossonera. E ripensare a gente che sulla stessa fascia, o dalla parte opposta, era capace veramente di scrivere la loro storia personale e della squadra. Gente come Maldini o Donadoni che rappresentano probabilmente un altro calcio e sicuramente la leggenda rossonera. Non solo per la qualità assoluta, quell’attaccamento che chiaramente non si può chiedere o pretendere da altri, quanto per la capacità di essere se stessi nella continuità. Con Sacchi o con Capello, due Grandi con filosofie di gioco molto differenti; e quando si trattava di esaltarsi o di sacrificarsi. Perché, ed in questo non c’è stato cambiamento, i campioni sanno sempre andare oltre se stessi. Perché non basta prendersi una volta il centro della scena, atteggiarsi o credere di essere una stella, ma è fondamentale saper guardare l’orizzonte.
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Il Milan, con Leao, ha fatto una scelta apprezzabilissima, consegnandogli la 10 di Rivera, Baggio, Boban e Gullit, offrendogli un contratto quinquennale, eleggendolo – per distacco – a giocatore più pagato dell’intera rosa. Ha fatto insomma tutto il possibile e anche di più, Con Theo Hernandez si trova invece a un bivio, perché a giugno si arriverà a un anno dalla scadenza naturale e si tratterà di farsi la domanda classica e più scomoda, che però vale per entrambi. Ma il prezzo da pagare – non solo economico – è quello giusto?
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