L’ex difensore nel 2014 si sentì male in campo: “Avrei vinto lo Scudetto con la Roma e giocato il Mondiale col Brasile… Ma lì è finita la mia carriera. Sono tornato ma non ero più io”
La vita, nel bene e nel male, può essere uno scrigno di sorprese. Leandro Castan l’ha sperimentato sulla propria pelle, nel silenzio dei suoi muscoli, nelle parole di chi gli è stato accanto quando tutto era buio e non si vedeva una luce in fondo al tunnel. “Ho avuto paura di morire. Mi venne diagnosticato un cavernoma, ovvero una malformazione vascolare del cervello. Li è finita la mia carriera”. In un momento è cambiato tutto. Vai a dormire calciatore, ti svegli che non lo sei più. Il difensore, quando ne parla rivive il dramma. Il difensore aveva 26 anni, una sessantina di partite in A ed era nel giro della nazionale brasiliana. “Il tumore ha spazzato in tribuna i miei sogni. Avrei vinto lo Scudetto con la Roma e giocato il Mondiale col Brasile”.
Castan, la fine della sua carriera ha coordinate ben precise: era il 14 settembre del 2014, la Roma giocava in casa dell’Empoli. Maicon si accorse che qualcosa non andava…
“In quei 15’ è finito tutto. Maicon andò da Garcia e disse “Leo sta male, cambialo”. Sono uscito dal campo e non sono più rientrato. Il giorno dopo mi sono svegliato con un mal di testa particolarmente acuto, sono andato in ospedale e ho fatto una risonanza. Il corpo non rispondeva più, ho avuto paura di morire”.

Poi è arrivata la diagnosi. Le venne comunicato che aveva un cavernoma cerebrale. Si ricorda la sua reazione?
“All’inizio la Roma non mi ha comunicato nulla, sicuramente per proteggermi. Capivo che erano preoccupati, mi dicevano solo di stare calmo. Quando l’ho scoperto è stato terribile. Sono passato dalla lotta per vincere lo scudetto con i giallorossi a stare in un letto d’ospedale a combattere con un tumore. Un incubo, vomitavo ogni giorno. Avevo perso 15 kg in due settimane. L’obiettivo era diventato sopravvivere, altroché. Il calcio in quei momenti viene dopo”.

Ricorda un messaggio particolare ricevuto dopo l’operazione?
“Si, tantissimi. Molti di questi inaspettati. Ricordo mi scrisse Baresi, fu incredibile. Poi Del Piero, Bonucci e altri. Oltre a tutti i miei compagni, sono stati fantastici”.
Dopo una lunga riabilitazione ha poi provato a rientrare. Ma non è stato facile. Ha come avuto la sensazione che il suo corpo non rispondesse più ai comandi?
“Le racconto questo. Ricordo alla perfezione il primo pallone su cui provai ad andare. Provai a stopparla ma mi passò sotto le gambe. Era come se non avessi il controllo del mio corpo. Una sensazione tremenda”.
Ha mai pensato di smettere?
“Sì, tante volte. Non so spiegare a parole la delusione. Non ti riconosci, vuoi raggiungere un livello ma non ci riesci. In quel periodo, piangevo sempre. E arrivai anche a litigare con i compagni. Come quel giorno con Dzeko…”.
“In allenamento Edin si girò e mi diede una manata. Io me la presi e dopo 5 minuti gli entrai in modo duro, facendogli un brutto fallo. Lui mi insultò, volarono un po’ di parole. Poi la sera l’ho chiamato e mi sono scusato, oggi siamo buoni amici. Successe anche con Keita. Discutemmo in allenamento, io stavo male e mi scaldavo subito. Poi anche con Seydou è rientrato tutto già negli spogliatoi”.
Alla Roma le sono stati vicini?
“Sì, tantissimo. Non posso fare altro che ringraziare il club e le persone che hanno vissuto con me quel periodo. Walter Sabatini è stato come un secondo padre, ma anche Rudi Garcia è stato fondamentale. Dopo ogni allenamento veniva a casa mia e passava mezz’ora con me. Accadeva tutti i giorni. Era il suo modo per farmi sentire parte del gruppo. Non l’ho mai detto prima, ma è una cosa che porto nel cuore”.
Spalletti, invece, la mise praticamente fuori rosa dopo la partita con l’Hellas Verona…
“Mi chiamò nel suo ufficio per dirmi che voleva rilanciarmi. “Cosa devo fare per ritrovare uno dei difensori più forti del campionato”, mi chiese. All’inizio, infatti, mi diede fiducia. Poi dopo quella partita terribile contro il Verona, scelse di non farmi più giocare. Mi convocò e mi disse che sarei dovuto andare via, che il mio livello era di uno che poteva giocare al Frosinone. Quindi in Serie B. Fu brutto, non tanto per la scelta ma per i modi usati. Mi sono sentito umiliato. Non credo, però, di essere l’unico ad averci discusso nel corso del tempo…”.
Lì, di fatto, è finita la sua esperienza con la Roma. Oggi ha imparato a convincerci o resta un rimpianto?
“Mi dispiace non essere riuscito a rimanere a quel livello. Ce l’ho messa tutta, non è bastato. Il mio successo è già stato riuscire a tornare in campo. A un certo punto, però, allenarsi era diventato deleterio. La Roma non mi rinnovò il contratto e mio scelsi di tornare in Brasile. Dopo un paio d’anni, poi, ho mollato tutto”.
Della sua Roma che ricordi ha?
“Eravamo fortissimi, c’erano giocatori di livello mondiale. Oggi una squadra così vincerebbe tre campionati di fila. Salah, Edin, Francesco, De Rossi Benatia, Nainggolan e via dicendo. Abbiamo solo avuto la sfortuna di beccare una Juve incredibile che non perdeva mai”.
Il più forte con cui ha giocato?
“Vorrei dire Totti, ma sa… ho giocato con Ronaldo. Ronnie è sempre stato il mio idolo, condividere lo spogliatoio con lui è stato incredibile. Nei primi 4 passi non lo prendevi mai e aveva già la pancia eh!”.
Oggi che rapporto ha con il calcio?
“Fino a due anni fa non riuscivo a guardare nemmeno una partita. Mi veniva un nodo allo stomaco. Ora sono tornato a guardarlo, anzi mi piacerebbe allenare. In panchina vorrei riprendermi quello che la sfortuna mi ha tolto da calciatore”.
Ci pensa mai a come sarebbe andata se…?
“Ogni giorno che passa, mi creda. Per tanto tempo mi sono chiesto perché fosse capitato a me. Il tumore ha spazzato in tribuna i miei sogni. Penso che avrei vinto lo scudetto con la Roma e giocato il Mondiale con la nazionale brasiliana”.
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