Prisco entrava a San Siro un’ora prima della partita, “in trance”; Agnelli un minuto prima, da re che appare, scortato dal codazzo dei cronisti. I tempi in cui Juve-Inter era la loro partita
Il derby d’Italia quando c’erano gli avvocati. Gianni Agnelli, Peppino Prisco. Battute a go-go, veleni in forma di carezze, freddure nel menù pre e post partita, stoccate sempre di stile e stiletto, mai con la clava. Avvocati di grande classe, unici nel silenziare l’intero tribunale calcistico. Quando parlavano loro veniva da dire: vostro onore, non ho nient’altro da aggiungere. Però: che spasso quell’ironia sopraffina che distingueva entrambi, quell’intelligenza che impreziosiva il bla-bla-bla sul pallone, quel modo laterale di affrontare ogni questione, con eleganza e disincanto. Una volta chiesero ad Agnelli cosa significasse essere innamorato della Juve. Rispose: “Significa svegliarsi contento il lunedì mattina perché il giorno prima la Juve ha vinto”. Nobiltà sferzante. Lo slogan di Prisco era: “Se do la mano a un milanista me la lavo, se la do a uno juventino conto le dita”. Dileggio tagliente. Erano fatti così, di una pasta speciale.