Un tempo c’erano Zanetti, Del Piero, Maldini e Totti, oggi il calcio è diverso. Ma l’argentino conserva quei valori
Molto si discute sulle accuse che Lautaro Martinez ha rivolto ad alcuni compagni di squadra – soprattutto Calhanoglu – dopo l’eliminazione dal Mondiale per club. Ha fatto bene a tirare fuori tutta la sua rabbia e la sua delusione oppure avrebbe dovuto esprimere certi sentimenti solo dentro lo spogliatoio, di cui spesso viene celebrata la sacralità, come se niente dovesse uscire da lì?
A noi, in generale, piace chi ci mette la faccia e non ha paura dei propri pensieri, pur rilevando che le parole dell’attaccante hanno avuto un effetto dirompente nel mondo Inter; anche la maggioranza delle migliaia di tifosi che hanno risposto al sondaggio di Gazzetta.it ritiene che il giocatore abbia fatto bene a parlare in pubblico (la differenza però non è schiacciante, 53 per cento contro 47). La società, invece, avrebbe preferito che la questione rimanesse circoscritta, privata. Il dibattito sulla scelta dell’argentino, insomma, è aperto. Quello che ci sembra difficile discutere, e che apprezziamo sempre di più, è la partecipazione emotiva di Lautaro alle vicende dell’Inter. Che è totale e, nel calcio di oggi, decisamente rara. Oggi il calcio è differente ed è sbagliato scandalizzarsi o addirittura indignarsi: cambia tutto, perché non deve trasformarsi il mondo del pallone?
I legami a vita tra un campione e una squadra sono diventati quasi impossibili; per usare una frase fatta – eppure giusta – non esistono più le bandiere come una volta. Lautaro Martinez, in questo senso, è un caso quasi unico. Nelle ultime stagioni ha dato tante dimostrazioni di avere un attaccamento speciale nei confronti dell’Inter, non solo professionale, non solo economico. Lautaro è uno che, per esempio, dodici mesi fa – dopo una stagione massacrante conclusa con la conquista della Coppa America con l’Argentina – non ha esitato a ridursi le vacanze perché Inzaghi aveva assoluto bisogno di un attaccante (e poi ha pagato fisicamente questo sforzo): quando si dice che l’interesse collettivo conta più del proprio benessere. Ed è anche uno che non avete mai sentito minacciare l’addio all’Inter, nemmeno attraverso il procuratore, quando è stato in piena trattativa per il rinnovo del contratto. Per carità, ha un bell’ingaggio e ha pensato anche ai suoi interessi, ma non ha mai provato a forzare la mano alla società mettendo sul tavolo vere o presunte trattative con questo o quel club di Premier oppure di Liga. Ha sempre avuto un comportamento lineare, corretto: io voglio restare qui, troviamo una soluzione perché io sia felice e voi siate soddisfatti.
Per amore dell’Inter, ha rotto lunghe amicizie: non parla più con Lukaku da quando Romelu ha voltato le spalle al mondo nerazzurro. E adesso se l’è presa con Calhanoglu, e forse non solo con lui, perché ha avuto sensazioni negative in un momento delicatissimo, dopo tante delusioni e con la possibilità di salvare ancora qualcosa della stagione attraverso il Mondiale americano (dove lui, peraltro, benché chiaramente stanco, ha segnato due reti e colpito quel palo che avrebbe riaperto ai nerazzurri la possibilità di andare ai quarti). Tre lustri fa, quando l’Inter ha vinto l’ultima Champions italiana, il capitano era Zanetti. Quello della Juve era ancora Del Piero, la Roma aveva Totti (e De Rossi, capitan futuro), nel Milan la fascia era al braccio di Ambrosini, rossonero da quindici stagioni, che l’aveva ereditata da Maldini e Costacurta. Leggende indissolubilmente legate a quelle maglie: qualcuno ha pensato nel corso degli anni di portarli altrove, loro sono rimasti fedeli a club e colori. Adesso è tutto differente, ci sono capitani in scadenza di contratto, altri che cambiano squadra, altri ancora che rappresentano la società senza avere lo spessore dei campioni del passato. Non c’è niente di male, sono elementi nuovi del calcio attuale e vanno accettati. L’eccezione è Lautaro (come De Roon e Berardi, punti di riferimento di Atalanta e Sassuolo): sette stagioni all’Inter, in media quasi 50 partite e più di 20 gol ogni anno. E la voglia di metterci sempre la faccia. Anche quando potrebbe farne a meno, anche quando sarebbe più semplice stare zitto e pensare agli affari propri. Ma un capitano, l’ultimo dei capitani, non fa così.
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