Ha abbracciato l’Inter 18 anni fa da calciatore dopo un lungo tira e molla con la Roma: oggi torna da allenatore nel segno di papà Mircea, dopo la salvezza col Parma
Quella camicia azzurra sarà finita chissà dove, stritolata dal tempo e raggrinzita dalla vita, spinta sul fondo di un cassettone di ricordi griffati Inter. Il gran ritorno di Cristian Chivu ha un cielo più sereno rispetto al giorno del suo arrivo, una mattina di luglio di 18 anni fa. La prima volta che abbracciò Milano era un’altra una vita: City Life era un cantiere e il Bosco Verticale non era nemmeno un’idea. Il sogno Triplete, poi diventato realtà un pugno di stagioni dopo, era in allestimento. Cristian si presentò con i suoi agenti, i fratelli Becali, e brindò all’Inter insieme a Marco Branca in un ristorante nella vecchia Brera, il “Pontaccio”, covo di procuratori, scout e mercatari incalliti.
SENZA PAURA
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Cristian, all’epoca ventisettenne timido ma fiero – un figlio della Romania di Ceausescu cresciuto col culto di un padre-allenatore scomparso troppo presto – si presentò alla sua prima cena milanese con una camicia azzurra abbottonata fino al collo. Il tutto dopo un mese d’inferno dovuto alla trattativa tra Moratti e Rosella Sensi per sciogliere il nodo gordiano di un contratto di ferro e portarlo a San Siro. Chivu lasciò la Roma tra fischi, insulti e dardi dritti al cuore. Il tutto dopo aver sposato la causa romanista dopo stagioni da giovane capitano all’Ajax. “Merito di Koeman, a 21 anni mi diede la fascia per responsabilizzarmi”. Non si è mai tirato indietro. Il 21 luglio 2007, alla ripresa degli allenamenti, fu accolto da nugoli di fischi nel ritiro della Roma. Colpa di un’operazione con l’Inter non ancora chiusa e contaminata da dozzine di smentite, colpi di scena, colpi di testa, mani strette e poi lasciate andare. “L’Inter si tira indietro”. “No, è ancora in corsa”. “Per meno di 18 milioni non si muove”. “La parola di Moratti è d’oro”. Si parlò addirittura di guardie del corpo da affiancare al giocatore. “Non ne ho bisogno, posso camminare a testa alta”. In difesa, col suo mancino da goniometro, e anche fuori, quando ha raccontato di aver avuto bisogno di uno psicologo per lasciarsi scivolare addosso i fischi dell’Olimpico. Colpa di un paio di frasi di stima verso Capello, a quei tempi volato alla Juventus: “Venivo fischiato di continuo e vomitavo dopo ogni partita”. Queste le sue parole a Cronache di Spogliatoio. “La tifoseria non mi perdonò più nulla”.
CON MOU
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Il Chivu interista nasce così. Era l’estate del 2007, in panca c’era Mancini e l’Inter navigava tra le acque di due cicli, prima con Roby e poi con Mourinho, campione d’Italia, d’Europa e del mondo anche grazie al soldato Cristian. Uno che la sera di Barcellona-Inter – impresa mai dimenticata – giocò esterno alto al posto di Pandev. “José mi ha insegnato coerenza e credibilità”. Anche attraverso gli schiaffoni. Prima di un Atalanta-Inter giocato da ala gli disse che correva come sua nonna: “Nonostante fossi fuori ruolo avevo dato il massimo. Finita la riunione disse che la partita dopo avrei giocato in difesa”. Mourinho, nei giorni successivi, gli spiegò perfino cosa sarebbe successo nella finale contro il Bayern: un giallo su Robben dopo mezz’ora, venti minuti da mediano di rottura e infine il cambio, intorno al 60’: “Era andato anche a vedere Borussia Dortmund-Bayern. Disse che avremmo vinto: sembrava la trama di un film già scritto”. Oscar per la miglior regia.
PER PAPÀ
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Chivu ha raccolto ciò che hanno seminato gli altri intorno a lui. Ha preso qualcosa dal Mancio, qualcos’altro da Mourinho, altro ancora da Capello, Koeman, Spalletti e anche da suo padre, suo primo allenatore. Se n’è andato quando aveva 18 anni. A Resita, in Romania, dov’è nato e cresciuto, lo stadio è intitolato a Mircea Chivu. L’uomo che gli ha infilato le scarpette, messo un pallone davanti e detto “calcia”. Il giorno del suo addio al calcio gli ha scritto una lettera e l’ha chiusa così: “Spero tu sia fiero dell’uomo che sono diventato”. Pronto a guidare la sua Inter, traghettata fino al tetto d’Europa con un caschetto protettivo. Colpa di uno scontro con Pellissier durante Chievo-Inter del 6 gennaio 2010. Chivu tornò in campo due mesi dopo, in casa col Livorno, e da quel giorno non si è più tolto la protezione. Ha perso sensibilità alla mano sinistra, rischiato di smettere e ogni colpo di testa era un’agonia. Il suo amico Materazzi gli tendeva la mano. “Tu stai largo, salto io”. La sua avventura da calciatore s’è chiusa nel 2014. Per lui 3 gol, 169 partite, 13 trofei tra Ajax, Roma e Inter e un paio di soprannomi ostici, “Swarovski” e “Crystal Chivu”, dati dai tifosi giallorossi per via dei troppi infortuni.

NUOVA ALBA
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L’interismo attraversa la sua vita da quasi vent’anni come fa il Danubio con tutta l’Europa. Nel 2018 ha preso le redini delle giovanili e ha guidato schiere di ragazzi in tutte le categorie, dall’Under 14 alla Primavera, dove ha vinto il campionato nel 2022. Ha difeso i suoi dai litigi e plasmato gruppi grazie al paintball e all’occupazione degli spazi. Il suo modulo è il 4-3-3, ma ripeteva sempre di andare oltre i “numeri” e guardare più avanti, alla visione d’insieme. Di talenti ne ha svezzati parecchi: Fabbian, Zanotti, Casadei, Carboni, Pio Esposito. Questi ultimi due li ritroverà al Mondiale per Club. A Parma si è definito “un dittatore democratico”. Uno capace di stritolare il caos e riportare equilibrio. Converrà andarci piano. Chivu ha vinto un campionato Primavera e vanta solo 13 partite tra i professionisti, ma la sua più grande virtù è la calma: nel 2010, tornato a casa dopo aver vinto la Champions, si scolò un paio di birre vedendo sorgere il sole. Ora è tempo di una nuova alba.
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