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Il “no” che per un momento ha fermato l’ingranaggio del calciomercato – Tempi.it

September 20, 2023 | by allcalcio.it

È finito il calciomercato estivo e, come ha detto l’allenatore del Milan Stefano Pioli, non se ne poteva più. Lungo, lunghissimo, ancora aperto a campionato già iniziato per rompere le scatole non solo ai fantallenatori ma agli allenatori quelli veri, e ai giocatori ancora in vetrina terrorizzati di rompersi a un passo dalla cessione che potrebbe cambiar loro la carriera. Il primo calciomercato inflazionato dai soldi dei sauditi, che hanno gonfiato portafogli e pagine di giornali per due mesi raccattando giovani e vecchi fenomeni del calcio europeo a suon di petrodollari (a proposito, leggete su Tempi di settembre, in uscita in questi giorni, il bellissimo pezzo di Alessandro F. Giudice). Forse l’ultimo calciomercato in cui la Premier League ha fatto ancora la parte del leone, anzi dei tre leoni, in attesa che Riad sorpassi Londra per budget speso.
Una sessione di mercato iniziata con l’inatteso addio di Sandro Tonali al Milan, la squadra che tifava da bambino e che giurava di non volere lasciare mai. Non si può dire no a 80 milioni, ci siamo ripetuti tutti, il Milan è il Milan ma il Newcastle è una realtà in crescita, e poi vuoi mettere giocare in Inghilterra? Lo stipendio è più alto, vorrei vedere voi dire di no a uno stipendio più alto. E poi le bandiere non ci sono più dai tempi di Totti e Del Piero, quel calcio è finito, smettiamola con la nostalgia, i calciatori sono professionisti, prestano la loro opera per il datore di lavoro di turno. Baciare la maglia fa parte del contratto, guarda Lukaku, le frasi tipo “ho sempre sognato di indossare questi colori” sono fumo necessario lanciato dal marketing personale dei calciatori negli occhi dei tifosi.
E i tifosi sono i primi a saperlo, a capirlo, sanno che si tifa solo la maglia. I ragazzi del vivaio servono a fare plusvalenze, ormai tutto ha un prezzo, e nell’estate dell’ingordigia saudita quel prezzo è raddoppiato. La carriera di un calciatore è breve, non si possono tarpare le ali ai giovani più forti, quando ti vuole una squadra che lotta per l’Europa e tu te la giochi per il decimo, l’ottavo posto al massimo, saresti un pazzo a non dire di no, oltretutto con lo stipendio più che raddoppiato.
Ora si dà il caso che tutti questi verissimi luoghi comuni, che ogni povero tifoso ha ripetuto almeno una volta nella vita parlando di calcio a casa, al bar, con gli amici, in università, e che eravamo pronti a ripetere anche come chiosa finale di questa sessione di calciomercato, siano stati spazzati via da un “no” detto da un calciatore italiano a una squadra più forte di quella in cui gioca adesso, un “no” arrivato nonostante la sua società, il suo procuratore e il nuovo buon senso tipico del calcio moderno gli suggerissero di dire sì. Stiamo parlando di Alessandro Buongiorno, difensore classe 1999 del Torino, squadra in cui ha giocato da quando aveva sei anni, per cui fa il tifo e di cui è diventato vicecapitano.
Buongiorno è un buon difensore, già nel giro della Nazionale di Roberto Mancini ma non ancora in quella di Luciano Spalletti, ha grinta, discreta tecnica e un futuro che gli esperti gli prospettano ottimo, in crescita. Nel calcio in cui le squadre che non lottano per la zona Champions sono considerate soltanto tappe verso i grandi club, uno come Alessandro Buongiorno avrebbe dovuto dire di sì all’offerta dell’Atalanta, una squadra da qualche anno stabilmente nelle prime posizioni, che gioca in Europa, paga stipendi migliori di quelli pagati da Urbano Cairo, coccola i giovani, dà loro una vetrina importante e ogni anno lotta per provare a vincere qualcosa. E il Torino lo stava per vendere – come si fa a dire no a 30 milioni? –, il suo procuratore aveva già trattato per l’ingaggio, i tifosi granata erano arrabbiati ma rassegnati al sacrificio – ormai il calcio è così, eccetera.
Ma Buongiorno ha detto di no, e il suo procuratore, che lo avrebbe invece portato a Bergamo di corsa, diceva ieri a Sky Sport che – ahilui – avrebbe rifiutato anche a un’offerta dalla Premier League. E ha rifiutato perché lui è del Toro, rinnovando il contratto aveva spiegato che per lui il granata è un punto di arrivo, ma quale tappa, che avere letto i nomi dei caduti del Grande Torino a Superga lo scorso 4 maggio «mi rimarrà nel cuore per tutta la vita» perché «con questa maglia ci sono cresciuto».
In un lampo Buongiorno ha fregato tutti, ha tolto l’alibi a chi sostiene che nel calcio moderno non si può dire no a un’offerta migliore, ha sbugiardato chi dice che l’appartenenza è solo dei tifosi e non dei calciatori-impiegati, ha ridato un po’ di fiato a chi parlava di appartenenza nel calcio e sembrava parlasse del sesso degli angeli.
Per un momento ha rotto il giocattolo, fermato l’ingranaggio, costretto tutti a guardarlo, ha messo in imbarazzo persino la Gazzetta dello Sport, di proprietà del suo presidente, che per due giorni non sapeva che dire; il “no” di Buongiorno ha ricordato che davvero i soldi non sono tutto, che giocare in Europa e lottare per la Champions è bello, ma scendere in campo per la squadra che tifi un po’ di più. Facile restare alla Juve, o all’Inter, o dire no al trasferimento in una squadra che vale come la tua. La scelta di Buongiorno – arrivata ad accordo fatto, non quando in giro c’erano solo le voci – ha dimostrato che non tutti i calciatori sono succubi di procuratori e direttori sportivi.
Magari tra qualche anno Buongiorno lascerà il Toro per andare in Premier League, o all’Inter, o alla Juventus (no, non andrà alla Juventus), ma nell’estate dei prezzi gonfiati dagli arabi, nell’epoca dei bilanci in rosso e delle plusvalenze come bene primario per la sopravvivenza, c’è ancora qualcuno che non si vergogna di dire di appartenere a una maglia, e di farlo vedere coi fatti, non con i baci allo stemma. Perché da due giorni si parla così tanto del no di Buongiorno all’Atalanta? Perché è una cosa vera. E in questo calcio una cosa vera è cosa rara. Se sia anche giusta per la sua carriera, lo dirà il tempo. Tanto i tifosi del Torino, e chi ama il calcio, lo sanno già.

Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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