Donadoni apre le porte dell’Al-Qadsiah a Retegui: “Mateo, a te l’Arabia”

allgossip9@gmail.com
9 Min Read

L’ex milanista è stato il primo calciatore italiano in Arabia Saudita: “Un anno e due titoli, che ricordi… Retegui? Ognuno della propria vita fa ciò che vuole: il 99% di chi parla avrebbe fatto lo stesso”

Andrea Barilaro

Roberto Donadoni, lei è stato il primo calciatore italiano in Arabia Saudita: cosa pensa del passaggio di Mateo Retegui, capocannoniere della Serie A e 9 della Nazionale, all’Al-Qadsiah? 

“Ha inciso il lato economico, inutile nascondersi dietro un dito. Ma ognuno della propria vita fa ciò che vuole. Le critiche? Il 99% di chi parla, se fosse in quella situazione, farebbe esattamente lo stesso”. 

Oggi il Dona ha 61 anni. Quando giocava lo chiamavano Luci a San Siro, un’ala destra coi piedi da brasiliano e il dribbling facile. Dirà Platini: “Il miglior italiano degli Anni 90”. Dodici anni di Milan, sei scudetti e tre Coppe Campioni, in mezzo anche una toccata e fuga a New York. Poi nel ‘99 un amico gli confida un segreto: ‘Dona, ti vogliono in Arabia’. Andrà all’Al-Ittihad “per volere di un principe-tifoso, non mi aveva chiamato la società”, il primo italiano saudita: verranno dopo Giovinco e Verratti, ora anche Retegui. Un anno, due trofei “battendo l’Al-Ahli, la squadra ‘ricca’ di Gedda: noi eravamo quella del popolo…”. E poi tennis, biliardo, serate fino a tardi con la comunità italiana “perché tanto il giorno dopo ci si allenava tardi, colpa delle temperature”. 

“Al punto che non si scendeva mai in campo prima delle 19. Però io ho sempre avuto un buono spirito di adattamento, dunque non ho fatto poi tanta fatica una volta arrivato lì”. 

Come occupava il suo tempo? 

“Durante il giorno avevo tanto tempo libero, se non ero a casa comunque giravo per la capitale, Gedda, cercando di conoscere i luoghi, usi e costumi. In più frequentavo tantissimo il circolo italiano, dove ho avuto modo di interagire con diverse persone. Con alcuni di loro sono ancora in contatto. Ci si trovava dopo l’allenamento, si giocava a tennis o biliardo. E si faceva anche tardi: considerando che il giorno dopo ci si allenava alle 19… ci poteva stare”. 

Perché proprio l’Arabia? 

“Per amore del Milan. Sentivo di poter dare ancora qualcosa al calcio, ma non avrei mai giocato in nessun’altra squadra…”. 

Come nacque l’opportunità? 

“Tramite un mio amico di Milano. Lavorava per un saudita, credo fosse un principe, comunque un signore ricco che tifava per l’Al-Ittihad. Sapendo che sarei andato via dal Milan, mi ha chiesto se potesse interessarmi un eventuale trasferimento in Arabia. A quel punto sono andato lì una settimana, ho fatto le mie valutazioni e alla fine ho accettato”. 

La famiglia era con lei? 

“Facevano avanti e indietro. Se penso a mia moglie, all’epoca per le donne era molto più complicato rispetto ad oggi. Non potevano guidare, non potevano girare da sole. Oggi non è più così, le cose sono diventate più agevoli e semplici”. 

I tifosi la riconoscevano per strada? 

“Dopo aver vinto campionato e Coppa, diciamo che era diventato un po’ problematico andare in giro in centro. Ricordo che la gente mi fermava, mostrava affetto, chiedeva autografi. È anche capitato di fare pranzi e cene insieme alla tifoseria, seguendo le loro tradizioni. È stato bello”. 

Le strutture com’erano? 

“Il terreno di gioco stupendo, il centro sportivo pure. E anche lo stadio non era male: imparagonabile ai colossi che hanno costruito gli anni successivi, ma si difendeva. 25mila posti, quasi sempre pieno anche grazie al rendimento della squadra, visto che eravamo primi in campionato”. 

E il livello del calcio? 

“Non male. La nostra squadra, quella con cui abbiamo vinto il campionato, credo potesse essere paragonata tranquillamente a una di Serie A di bassa classifica. Avevamo diversi giocatori in nazionale saudita, tra questi due o tre erano davvero interessanti. Ricordo il centravanti, il nostro bomber, capocannoniere del campionato. Molti avrebbero potuto giocare in A: chiaramente non tutti, ma qualcuno sì”. 

Un anno e due titoli, una bella media. 

“E c’è di più, perché in entrambe le competizioni avevamo battuto l’Al-Ahli, l’altra squadra di Gedda. Era un derby: loro erano la squadra ‘ricca’, mentre noi quella del popolo. Battuti due volte, prima arrivando davanti in campionato e poi in finale di Coppa del Re, dove si affrontavano la prima e la seconda classificata”. 

Tolti i trofei, il momento che ricorda con più piacere? 

“Il Ramadan, simbolo di un paese molto diverso dal nostro. È un periodo particolare, in cui la città vive più di notte che di giorno. Ed era pieno di gente, tantissimi musulmani che arrivavano da fuori per pregare. Mi rendevo conto quanto fosse bello vedere che c’erano abitudini lontanissime dalle nostre”.

Avrebbe fatto la stessa scelta anche nel pieno della carriera? 

Mateo Retegui l’ha fatto. 

“Quando si fa una scelta del genere, chiaramente l’aspetto economico ha una valenza importante. Non bisogna nascondersi dietro un dito. Le proposte dall’Arabia sono importanti, è impossibile non pensarci. Certo, a quel punto gli obiettivi cambiano, la crescita professionale ne risente, ma non mi sento di giudicare in negativo chi fa questa scelta. Ognuno della sua vita fa ciò che ritiene più opportuno”. 

L’opinione pubblica è da sempre divisa, lei da che parte sta? 

“Tutti quanti fanno in fretta a puntare il dito, a esprimere giudizi senza conoscere. E dico che, probabilmente, il 99% di loro, in circostanze simili, farebbe esattamente lo stesso”. 

Però i tifosi probabilmente si aspettano che il 9 della Nazionale non pensi solo al conto in banca. 

“Tanti giovani, in tutti gli ambiti, finiscono per andare a lavorare all’estero: perché stupirsi se lo fa un atleta? Si parla sempre di fuga di cervelli, quindi un motivo dovrà pur esserci, no? All’estero ci sono più vantaggi, quindi tutto è una conseguenza”. 

Ronald Koeman, ct dell’Olanda, parlando di Bergwijn in Arabia, ha dichiarato che si sarebbe dovuto dimenticare la Nazionale. Cosa ne pensa, lei che ha anche allenato gli Azzurri dal 2006 al 2008? 

“Un ct ha il dovere di tenere in considerazione tutti i giocatori che ha a disposizione, che questi siano in Inghilterra, Germania o Arabia. È chiaro che andare in un campionato come quello saudita non è come giocare in Premier, però se un ragazzo si dimostra comunque a buon livello credo debba essere tenuto in considerazione”.

Una volta ha detto che in Arabia avrebbero bisogno di grandi allenatori, ed ecco Simone Inzaghi dopo che sono passati di lì anche Roberto Mancini e Stefano Pioli. 

“Simone ha fatto sicuramente la cosa che riteneva più opportuna e giusta per lui. È comunque un buon segnale per il calcio d’Arabia: avere allenatori di questo livello credo possa giovare a tutto il movimento, non solo, in questo caso, all’Al Hilal”. 

Potranno mai raggiungere il livello delle squadre europee? 

“Sì, ma tutto passa dai giovani. L’ho sempre detto: va bene prendere i grandi giocatori, ma servono anche gli allenatori, e questi devono essere capaci di far crescere i giovani del territorio, puntando sulle academy. È questo il salto di qualità che gli manca per diventare competitivi a livello internazionale: puntare sui ragazzi del vivaio. E chi meglio degli allenatori europei per farlo?”.



Share This Article
Leave a Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *