Cristiano Doni: “Io, l’Atalanta, le scommesse, Last Bet e…”

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L’icona dell’Atalanta e le sue mille vite: bomber, azzurro, condannato per Last Bet, imprenditore: “Sono stato capro espiatorio di quella vicenda, ho mangiato tanta m… ma mi sono tirato su le maniche. Oggi sono un imprenditore, e a Bergamo mi vogliono tutti bene”

Furio Zara

Collaboratore

Nella postura da condottiero e nell’armonia rotonda di ogni suo gesto, Cristiano Doni sfoderava un’invincibile padronanza. Quando giocava, sembrava riuscisse a controllare ogni cosa: il cruciverba del pallone, le geometrie del gioco, persino il colpo di vento che cambia il destino di ogni rimbalzo. Era un 10 anomalo, il fisico da pivot, le movenze da ballerino, risultava come un punto esclamativo tra le parole trequartista e attaccante. Custodiva in ogni suo movimento la più invidiabile delle qualità: la disinvoltura. Vent’anni di carriera dalla C2 alla A, l’Atalanta come centro di gravità, la maglia azzurra per venare di orgoglio i ricordi. Poi un giorno l’architettura di quel mondo è crollata, Doni è rimasto avvitato nel nodo scorsoio della superficialità, il pallone è rotolato lì dove la sentenza arriva prima del processo. La condanna a tre anni e mezzo a seguito dell’operazione Last Bet sul calcioscommesse del 2011, la carriera finita, il marchio dell’infamia, l’assoluzione per prescrizione nel 2019, la nuova vita. A memoria di quel tempo c’è una cicatrice, come la riga nera che lascia l’acqua sui muri dopo l’esondazione. Oggi questo vecchio ragazzo di cinquantadue anni ha la coscienza pulita di chi può guardarsi allo specchio sorridendo, perché sa che il riflesso che ci racconta — quando si è in pace con se stessi — è sempre il più sincero. 

Doni, se chiude gli occhi come si rivede? 

“La mano sotto il mento, la maglia dell’Atalanta addosso. Con quella mi sento Superman, è la numero 27, scelta in omaggio a Gilles Villeneuve, l’idolo di quando da ragazzino seguivo la Ferrari con mio papà. Ho appena segnato, sono felice con la mia gente”. 

Com’era il Cristiano bambino? 

“Ero gracile. A sedici anni d’un colpo sono cresciuto 18 centimetri. Papà dirigente della Esso, mamma casalinga, una sorella. Simpatizzavo per la Roma, sono nato lì. Mi piaceva Pruzzo perché era di Crocefieschi, il paese di mia mamma, ammiravo Van Basten. Sono cresciuto a Verona, mi chiamavano ‘Cricchio’, giocavo nella squadretta del quartiere. Ero bravino a basket, innamorato del tennis. Il tennis mi ha aiutato dopo il periodo buio, sono un categoria 3.1. Ho una venerazione per Federer. Hai presente la perfezione? Lui”. 

Quale è stata la svolta della sua carriera? 

“L’incontro con Sergio Buso, una persona speciale (Si commuove, ndr). Allenava le giovanili del Modena, vide in me qualità che non sapevo di avere. Non ero un predestinato. Ero stato bocciato dalla Primavera del Verona e del Bologna, Buso mi spalancò un orizzonte”. 

“Un 10 poco ortodosso, ora trequartista, ora centravanti di movimento, ora mezzala sinistra. Correvo molto, ero resistente. A Pistoia mi chiamavano Principe, a Bologna Ulivieri mi soprannominò Anatrone. E poi avevo il fiuto del gol (Doni è il miglior realizzatore nella storia dell’Atalanta con 112 gol, ndr), ero un attaccante a fari spenti: quel ruolo me lo diede Vavassori all’Atalanta, gli devo molto”. 

Il debutto in Nazionale arrivò a 28 anni. 

“Mi volle il Trap, era la fine del 2001, sei mesi dopo ero al Mondiale di Corea-Giappone, titolare nelle prime due partite, contro Ecuador e Croazia: un sogno. Venivo da una stagione pazzesca, chiusa con 16 gol in campionato, ma anche da un infortunio. Che mito, il Trap. Ti faceva sentire un campione”. 

Le è mancata la grande squadra? 

“No, nessun rimpianto. Potevo andare alla Juve, ma l’Atalanta chiese troppo e in fondo ne fui felice, volevo restare a Bergamo. Poi la Roma: Spalletti mi voleva come vice-Totti, mi chiamava Pradé e mi faceva ascoltare il jingle della Champions: ‘Ti piace?’. Avevo già 34 anni, risposi: ‘Grazie, ma no, rimango all’Atalanta’”. 

Chi è stato il compagno di squadra più forte? 

“Non ho dubbi: Morfeo. Un fenomeno, che con i piedi parlava una lingua bellissima”. 

A proposito della vicenda del calcioscommesse, cosa si rimprovera? 

“Dicono che il tempo è galantuomo, all’inizio sei così arrabbiato che non ci credi, ma poi scopri che è la verità. Mi hanno messo un’etichetta, ma non era la mia. I carabinieri all’alba a casa, i cinque giorni in prigione, le prime pagine dei giornali. È crollato tutto, sono diventato il capro espiatorio, oggi so cosa significa finire nella macchina del fango. Ne sono uscito traumatizzato, ma ciò che non uccide fortifica, si dice così, giusto? Per la maglia dell’Atalanta ho sputato sangue, eppure tutto mi si ritorceva contro. Oggi a Bergamo la gente mi vuole bene, questo è quello che resta. Sono stato condannato per due partite, Crotone-Atalanta, dove ho segnato un gol all’incrocio dei pali, e Atalanta-Piacenza: sì, sapevo che quelli del Piacenza vendevano le partite, l’ho accettato, tutto lì, sono stato uno stupido”. 

“Sono diventato un uomo migliore. Ho mangiato tanta merda, il rischio alla fine è quello di farsela piacere, ma mi sono tirato su le maniche e oggi sono un imprenditore. Ho un ristorante e altri locali a Maiorca, siamo cresciuti negli anni, puntando sulla qualità: ne vado molto fiero. A Bergamo ho aperto un centro sportivo, il ’27padel’, ricavato da un ex convento. Il padel crea comunità, ci vengono un sacco di amici ex calciatori. Tifo Atalanta, seguo tutto, ma con la giusta distanza. Ho una figlia di 22 anni e un figlio di 12 che gioca a pallone, il suo idolo è il Papu Gomez. È nato quando non vedevo la luce, mi ha salvato. No, non gli faccio vedere i miei gol, troverà la sua strada da solo, spero soltanto che sia felice”.



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