Chi è Renato Portaluppi, l’allenatore del Fluminense che ha giocato alla Roma

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Renato Portaluppi oggi allena il Fluminense ed è uno dei migliori tecnici in Sudamerica. Nel 1988 invece arrivò in giallorosso come “Il Gullit bianco” ma si distinse molto di più per la vita extra campo

Furio Zara

Collaboratore

Nei tratti di questo signore dal capello brizzolato, il fisico ancora tonico e la linea della bocca piegata come si piega quando si superano i sessant’anni e la dentatura è stata più volte offesa e ritoccata; solo i lettori abili nel rimettere insieme il puzzle dei ricordi sarebbero capaci di riconoscere al pronti-via il più incallito playboy del calcio anni 80, un tamarro da competizione che girava zavorrato da catenine, ciondoli e bracciali pesanti come un gatto siamese, un bullo che sfoggiava una chioma da capo Sioux e lo sguardo da mandrillo del Gazebo che a quei tempi intortava le folle cantando “I like Chopin”, in fondo pioniere di quell’estetica che da qualche tempo i trapper celebrano in prime-time.

l’estate di portaluppi alla roma

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Quando preceduto dalla sua fama arrivò alla Roma nell’anno di grazia 1988, Nils Liedholm disse che era il “Gullit bianco” e i tifosi giallorossi lo accolsero come fosse un divo. Spoiler: lo era. Stiamo parlando – l’avete capito – di Renato Portaluppi, ma in Brasile era conosciuto come Renato Gaucho. Oggi è l’allenatore del Fluminense, avversario dell’Inter agli ottavi del Mondiale per club. A dispetto di una carriera da calciatore ora brillante ma ora anche caciarona e sconclusionata, il Renato in panchina si è rivelato completamente diverso dall’immagine che aveva costruito quando folleggiava, in campo e fuori, con il pallone o senza. Nella sua seconda vita, cominciata all’alba del Duemila, Renato si è costruito uno status solido e credibile, ha allenato alcuni tra i più grandi club brasiliani – Fluminense a più ripreso, Vasco da Gama, Flamengo – vincendo una manciata di volte il campionato Gaucho, un paio di coppe del Brasile e – soprattutto – scrivendo il proprio nome nell’albo d’oro della Coppa Libertadores, alzata al cielo alla guida del Gremio nel 2017. Primo brasiliano, Renato, a vincerla sia da calciatore – trionfo datato 1983 sempre con il Gremio – che da allenatore.

giri di campo

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Ma è inevitabile che il contorno che ci restituisce la memoria vada in una sola direzione, quella del guappo che negli anni 80 ne combinò di tutti i colori attraversando quel calcio sempre in bilico su una garconierre. Era un donnaiolo da parata, di quelli che si vantano delle proprie conquiste dando di gomito agli amici al bar; Renato raccontava di avere nel suo curriculum più di mille conquiste. E ammiccando – sai com’è – confessava di aver fatto il calcolo per difetto. Con una definizione che oggi lo porterebbe – e giustamente – in tribunale con le mani incatenate, il brasiliano chiamava le donne “Maria scarpa da calcio”, poiché dalle sue parti – con una traduzione che evitiamo di riportare – così vengono definite le “groupies”, insomma, le ragazze facili che stanno appiccicate ai calciatori famosi per trarne vantaggio, offrendo prestazioni che – ma non è detto – non si riferiscono certo alla diagonale difensiva o alla sovrapposizione sulla fascia. Nella sua shuffled playlist la più mirabolante delle sue imprese raccontava di un amplesso dietro ad una siepe, mentre i compagni della Seleçao si allenavano correndo intorno al perimetro del campo. In Brasile si discusse molto se, per portare a termine quell’opera d’arte post-moderna, Renato Portaluppi aveva saltato un solo giro di campo o se invece gliene era servito qualcuno in più.

alla roma non funzionò

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Il campione – sì, in Brasile era quello il suo status – che lungo un decennio (1983-1993) alla fine vestì per 41 volte (segnando 5 reti, partecipando a tre edizioni della Coppa America – vincendo quella del 1989 – e al Mondiale di Italia 90) era un’ala d’attacco tutta dribbling e scatti. Giocò – eufemismo – in giallorosso nel campionato 1988-89. Pagato 3 miliardi di lire, offrì agli almanacchi 23 partite (la Serie A a diciotto squadre ne prevedeva 34), senza segnare lo straccio di un gol. Ne fece invece due in Coppa Italia, contro il Prato e l’Empoli, e uno, ma decisivo, ai trentaduesimi di finale della partita di ritorno di Coppa Uefa contro il Norimberga. Era la squadra di Giannini e Tempestilli, Oddi e Manfredonia, Massaro e Desideri, Gerolin e Nela, del giovane Peruzzi che insidiava Tancredi e del Bruno Conti sullo scivolo verso l’addio al calcio. Quell’anno gli stranieri della Roma – che chiuse il campionato con un mesto 8° posto – erano tre. Un centravanti tedesco, il “Vola tedesco vola” che rispondeva al nome di Rudi Voeller. E due brasiliani. Il Renato che qui raccontiamo e Andrade, detto “Er Moviola” per la sua – ehm, ehm – rapidità. Più che i dribbling in campo, fu il girovagare notturno del Gaucho – particolarmente riferibile all’ora feroce dell’acchiappo – a suscitare molte e variegate simpatie.

terzini e donne

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Quando era atterrato – letteralmente – in elicottero a Trigoria, nella sua prima intervista in Italia aveva manifestato il suo programma elettorale, spiegando che – più che i terzini – dovevano temerlo le loro mogli. All’Olimpico, quando se ne andò dopo una sola stagione, lo salutarono con uno striscione memorabile. “A Renato, ridacce Cochi”. Sempre di comiche, si trattava. Girava per via del Corso con giacche aperte sulla giungla di pelo, catenoni d’oro massiccio al collo, mocassini lucidissimi che provocano un effetto psichedelico e jeans strizzati su ciò che gli era più caro: un vero playboy, come da catalogo. Più che le aree di rigore frequentava i night, si presentava all’allenamento del mattino sempre un po’ stordito dalle acrobazie notturne. I compagni erano ammirati dalle sue imprese tra le lenzuola, tanto che ancora oggi – a qualche cena tra reduci – si rievocano spettacoli d’arte varia di cui il nostro era protagonista. Inevitabile il soprannome con cui è passato alla storia: il “Pube de Oro”. 



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