L’ex libero della Fiorentina sul compagno trovato morto in casa il 22 luglio: “La moglie ha ragione, bisogna scavare a fondo per capire cosa è successo”
I pensieri di Alberto Malusci in questi giorni si arrendono al vento della memoria. È un vento che soffia ora con più impeto e ora si placa, ma sempre lì rimane, acquattato nella testa per poi coglierlo di sorpresa spezzando la routine quotidiana. Malusci sa che quel vento amico segue un’unica traccia, quella del dolore, e ha un’unica direzione, quella che lo riporta al ricordo di Celeste Pin. “Celeste mi voleva bene, è stato il mio capitano alla Fiorentina, mi ha insegnato tanto. Ci eravamo visti a giugno in un camp per bambini della scuola calcio, qua a Firenze, avevamo riso e scherzato per tutta la settimana. Abbiamo parlato di un progetto da fare insieme (la voce di Malusci si incrina)… è difficile darsi una ragione di quello che è successo, mai e poi mai avrei immaginato…”.

Lei ha provato a cercarla, una ragione che spieghi il gesto estremo di Pin?
“Soffro anche solo a figurarmelo, un gesto così. La verità è che nessuno di noi può dire con assoluta certezza di conoscere un amico fino in fondo, nessuno può capire le ombre con cui gli altri convivono. Da quando Celeste se ne è andato ho provato a ricostruire ogni momento vissuto con lui, ma non sono riuscito a cogliere nulla, non un segnale, niente. È questa la cosa che mi rimprovero: non aver colto la fatica di vivere che Celeste portava dentro”.
Lei sapeva che, come ha raccontato l’ex moglie, da anni Pin faceva uso di farmaci per gestire la depressione?
“No, non lo sapevo. L’ho letto e mi sono stupito. Se è vero che il comportamento di una persona è lo specchio della sua anima, allora io ricordo solo un Celeste gioviale, allegro, di buonumore”.
L’ex moglie, Elena Fabbri, non crede all’ipotesi del suicidio; l’avvocato che la assiste, Mattia Alfani, sostiene che “Celeste non avrebbe mai esposto i figli a un trauma così violento”. Lei cosa pensa?
“Non so a cosa pensare, davvero. È tutto così triste… L’ex moglie ha tutte le ragioni per cercare una qualche verità”.
Lei e Pin quando vi siete conosciuti?
“A fine anni 80, quando sono stato aggregato alla prima squadra della Fiorentina. Avevo diciassette anni, a ottobre del 1989 ho debuttato in Serie A. Vivevo un sogno. Celeste era un veterano, mi ha preso subito sotto la sua ala. Io libero, lui stopper. Lo guardavo, cercavo di imparare. Aveva un senso dell’anticipo fenomenale, leggeva prima le intenzioni del centravanti avversario. E poi di testa svettava su tutti”.

L’ha mai visto arrabbiato?
“Una sola volta, all’intervallo della finale di andata della Coppa Uefa, a Torino, contro la Juventus. Era furioso, incazzato come mai era successo. Ce l’aveva con l’arbitro, con Casiraghi con cui aveva duellato in campo, si lamentava che l’arbitro non ci tutelava. Sì, quella fu la partita in cui davanti ai cronisti se ne uscì dicendo: ‘La Juve è una squadra di ladri’. Non era da lui, ecco. Celeste è sempre stato posato, esemplare nel comportamento, mai fuori dalle righe”.
“Un gentleman, con la sua cantilena veneta, ogni tanto se ne usciva con un’espressione in dialetto che ci faceva ridere. Era serio, posato, autorevole quando parlava. Era stato Lazaroni a promuoverlo capitano”.
Come vuole ricordare il suo amico?
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“Ho due momenti ben chiari nella testa. Il primo è quando ho smesso di giocare. Mi chiamò e mi disse che nella mia carriera avevo raccolto meno di quello che meritavo, era sincero, come lo è sempre stato. È il regalo di Celeste che custodisco nel cuore. E poi mi ricordo una trasferta di qualche anno fa, con la squadra delle vecchie glorie della Fiorentina. Eravamo ad Avellino, al memorial Adriano Lombardi. Dopo la partita e la cena siamo saliti in camera, dormivamo nella stessa stanza. Ci veniva da ridere, come quando eravamo calciatori. Abbiamo chiacchierato un po’ e non era ancora mezzanotte quando, mentre stavamo parlando, ci siamo addormentati come sassi. La mattina dopo, al risveglio, ne abbiamo riso insieme: eravamo due vecchi ragazzi che si divertivano ancora”.
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