L’ala fra desideri e realtà: “Dopo l’azzurro vorrei la Champions. Arrivare primi? Il calcio è strano…”
Chiamatelo “Serial dribbler”. Dribblatore seriale ma non maniacale: semplicemente lo sa fare bene. Le giocate di Nicolò Cambiaghi – uno che spacca davanti e che torna indietro per 40 metri a difendere – assomigliano a una sentenza, sanno di uomo saltato, quello che nel calcio di questi tempi scava il solco fra il possibile e il molto probabile. Zero tatuaggi e un fare che ha nulla di snob. È così come lo vedi. E dribbla come pochi. “È vero che da piccolo, a Tropea, passavo le giornate a dribblare i ragazzi più grandi, ero imprendibile (sorride, ndr). Poi, ai tempi delle giovanili all’Atalanta, Papu Gomez mi fa: ‘Vedo che sei innamorato del doppio passo. Bello, ma hai una rapidità tale che ti basta un passo. Uno solo”…”. Nicolò (che tornerà in campo a inizio dicembre contro la Cremonese) di passi ne ha fatti. Molti. “Nel rito di ‘iniziazione’ con l’Italia di Gattuso ho cantato davanti a tutti ‘Azzurro’. Arrivato a Bologna ho intonato ’50 Special’. Ma c’è un’altra musichetta che vorrei cantare…”.
Visti i tanti infortuni, “corti ma forti” è uno slogan possibile?
“Il livello che abbiamo raggiunto è alto. Grazie all’esperienza del gruppo ma anche alle rotazioni: è vero che fra me, Freuler, Skorupski, Holm e Rowe gli infortunati non sono pochi, ma la gente per tenere alto quel livello c’è e ci sa fare. Compreso Dominguez”.
Sacchi: “Studiate il Bologna”.
“La nostra forza più grande? Ciò che si vede: siamo uniti e ci vogliamo bene, c’è davvero una coesione quasi famigliare. Prendete quando è entrato Pessina contro il Napoli: magari lui aveva le orecchie tappate dalla tensione del debutto, ma ognuno di noi gli ha detto qualcosa per stemperare il momento. In campo? Giochiamo un calcio che diverte, intensità alta, tutto alla ricerca del risultato, sempre e con tutti. Se ci divertiamo anche noi? Molto. E le cose vengono pure meglio”.
È il più bel gruppo che ha vissuto?
“Anche a Empoli avevamo uno spogliatoio bello. Ma questo è speciale. I miei amici nel calcio extra-Bologna? Jacopo Pellegrini ora a Trento, Perisan, Rizzo Pinna, Fazzini e Seba Luperto”.
Ci dica di quei 2’ in azzurro contro Israele.
“Non ho toccato palla ma non importa. Ero felice e concentrato. Mi sono ripetuto ‘È tutto vero Nic’. Italiano mi ha detto: ‘Avrei pagato per poter vivere un’emozione così’. Anche a lui devo qualcosa”.
Italiano e Sartori: uno l’ha migliorata, l’altro l’ha vista crescere all’Atalanta.
“Iniziai con mio fratello gemello a giocare a 5 anni, nella Dipo, ma lui era meno appassionato di me. Così andai alla Vimercatese e Favini mi prese all’Atalanta: sì, Sartori mi ha visto crescere e mi ha voluto qui assieme a Italiano. Se mi è dispiaciuto non esordire nella Dea? Lì ho vinto due scudetti e una Supercoppa a livello giovanile: l’esordio l’avrei sognato ma senza l’Atalanta oggi non sarei qui. Italiano? Mi ha voluto, atteso e migliorato. Dal minuto uno ho sempre pensato che il suo gioco facesse per me. Poi l’anno scorso mi ruppi il ginocchio e non è stato facile: ma mi ha insegnato anche ad attaccare meglio la porta”.
Col famoso metodo-Ndoye post allenamento.
“Le faccio anche io le esercitazioni sì… Italiano mi dà tranquillità, sa farci esprimere al meglio, dice che noi dobbiamo essere non solo ali ma veri attaccanti e che se non facciamo gol noi si fa dura”.
È ormai celebre la sua foto con papà Luca alla finale Mondiale: da Berlino 2006 a New York 2026 come sarebbe?
“Ricordo poco di allora. Mio nonno trovò i biglietti, ho tante foto ed è stato bello rivederle quando ho abbracciato la Nazionale. L’ipotesi sarebbe fantastica: vedere New York fra quasi un anno significherebbe che al Mondiale l’Italia c’è e ha fatto benone: io, però, dovrò riguadagnarmi una eventuale altra convocazione. Andiamoci piano, dài…”. Senza andarci piano: c’è chi parla di scudetto.
“Noooo dài (sorride). Troppo… Oh, poi se arriva lo prendo: il calcio è strano…”.
“No, realista. Noi dobbiamo continuare a fare della nostra casa il solito luogo sicuro e vivere tutto quel che di bello c’è. Cosa abbiamo dimostrato battendo il Napoli? Che al Dall’Ara è tosta per tutti, di essere attenti, saper sfruttare i momenti e tenere un risultato anche contro squadre più forti”.
Metta che ci “scappi” la Supercoppa. Come sarebbe il pullman (scoperto) di Natale? (sorride)
“Non dico nulla… Ricordo solo che la vittoria della Coppa Italia è stata un’emozione unica. Un flash? Quando siamo usciti per testare il campo: la curva aveva già 30.000 bolognesi lì, pronti già un’ora e mezza prima della gara. Noi ci siamo guardati e detti: dai, facciamolo anche per loro”.
Lei è un esempio di ragazzo emerso dalla gavetta.
“I prestiti, la B, saper combattere anche in categorie in cui la lotta è basilare. Ai tecnici, se posso, dico: ai ragazzi va data la possibilità di sbagliare. E ai ragazzi dico: non mollate davvero mai, pure io ho avuto un momento difficile a 15-16 anni ma ho saputo riprendermi…”.
Dopo la maglia azzurra cosa le manca?
“La Champions. L’anno scorso non entrai in lista per il brutto infortunio al ginocchio: vorrei tornarci, conoscerla, canticchiare quella canzoncina…”.
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